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:: Claudio Di Scalzo: Malcuzynski e Medea T. Vir il 17 luglio
16 Giugno 2014

     

Witold Malcuzynski

a Rio de Janeiro davanti al monumento di Chopin

 

 

Claudio Di Scalzo

WITOLD MALCUZYNSKI E MEDEA T. VIR IL 17 LUGLIO

La mia dedizione e il mio orecchio vanno in cerca di interpreti del novecento nella classica e al pianoforte in un modo abbastanza bizzarro. Nel caso di Malcuzynski  tutto parte da una fotografia (che riproduco in esergo) in cui, sigaretta alla mano, di lato osserva la statua, molto modernista con spalle meditabonde e immagino tisiche anche se il bronzo non si ammala, di Chopin: il suo illustre conterraneo. Di cui è, e, rimarrà un interprete notevole nel pianismo contemporaneo. La fotografia ci rimanda il pianista interprete in carne e quello fondatore del romanticismo al pianoforte, sovrastati da una montagna, un picco, che piange la sua cascata cristallina. Il fumo invisibile della sigaretta che s’eleva il fiotto scrosciante che cala. Questa fotografia è l’incipit di una progressiva scoperta e ascolto. A cui accosto la simpatia che mi fa non sapere come si pronuncia esattamente il suo nome. E se me lo spiegano poi inevitabilmente sbaglio. Perché la “u” polacca è straniera rispetto a ogni accento pescato da me sulle rive della Senna o del Tamigi, e usato a sproposito. Anche la sua biografia che, in toni filiali, accosta al suo maestro di piano e politico: Ignacy Paderewski è coinvolgente, inusuale. Ambedue esuli entrambi con al centro del pianoforte Varsavia anche se suonano a New York. Ma è come Witold Malcuzynski si è espresso una volta sulla tecnica pianistica che mi convinse, definitivamente, a seguirlo nella sua discografia. Cito a memoria le sue parole - perché il quaderno dove annotavo narrazioni sulla musica e i musicisti l’ho affidato a Chiara Catapano - in cui afferma che per suonare Scarlatti e Rameau e Couperin bastano “dita eleganti”, e che invece per suonare i romantici, metti un Liszt, ciò non basta.

 


 Malcuzynski durante una lezione yoga

con il guru Iyengar a Gstaad, in Svizzera, nel 1954

 

Mi incuriosì questa affermazione tanto da scoprire poi che Malcuzynski aveva fondato la sua tecnica pianistica sulla leggerezza del braccio più che sull’articolazione delle dita e il loro tocco. Grazie all’insegnamento di Turczynsky il quale a sua volta lo aveva avvicinato all’universo di Ferruccio Busoni. I pianisti venati di misticismo si tengono per le braccia, mi chiedo, anziché per mano? Con il braccio, divulga il pianista polacco che approfondì questa sua tecnica meditandoci in lunghe sedute yoga, si ottiene la potenza adatta per attraversare il pianismo dei romantici, e anche del mio Chopin sottolineo, e i passaggi più ardui che incontro. Però all’origine del mio cambiamento da studentello a uno che studia da interprete c’è stato l’incontro con Pederewski. I grandi se li incontri, e sono pochi, ti trattano da amico, da subito, sei per loro ospite di riguardo, anche se non sei nessuno. E sta a te, che li ammiri e li frequenti, capire una verità che fa anche male, turba, inquieta, nel conoscerla mentre ci pranzi assieme, ci parli, ci cammini accanto: e cioè che non possono insegnarti niente, la loro lezione e arte non è imitabile. Puoi soltanto, caro Discalzo, come si pronuncia il tuo cognome con la “Di” separata o unita a “Scalzo”?, ah separata, bien, sperare che il potere d’irradiazione che possiedono, anche quando non riescono, metti per esempio a capacitarsi sugli orari dei treni, ti coinvolga, indicandoti come scartare di lato dallo loro strada e trovare la tua viottola, stamani parlo come un lucchese!, che può portare alla vista d'una cattedrale come capita nella città di Puccini. E se ciò non accade?, chiedo al pianista, pronunciando per la prima e unica volta il suo cognome in modo esatto, tanto che lui, bonariamente, ravviandosi i capelli all'indietro che si fan grigi, si ricorda la pronuncia del mio soprannome: se questo non accade, caro Accio, l’incontro è stato inutile. E conosco anche persone che poi han finito per odiare il maestro, desiderandone la rovina, procurando sfregi e insensatezze malvagie. Forse proprio per questa apertura d’amicizia artistica gratuita, per il loro non poter essere imitati se non per osmosi. Ma l’osmosi funziona se la si sa ricevere conoscendo l’amore nella sua essenza. Mi comprendi Accio?

 

                                             

 

Lo comprendo, eccome, tanto più nella vicinanza alla data del 17 luglio 2011, dove si manifesta la prodezza della musicista e poetessa Medea T. Vir, ma ne taccio la risonanza, per non avvilirlo. Gli chiedo invece cosa sia per lui l’interpretazione. Con occhi accesi da viva complicità dice, passami quel foglio che hai sul tavolo, te lo scrivo di mio pugno, così ti lascio impronta del mio passaggio non essendoci in questa casa un pianoforte. Sarà la mia interpretazione per te in questa giornata vecchianese. Leggila quando avrò varcato il cancello verde della tua casa per tornare a fissare Chopin a Rio de Janeiro dove fra l’altro si svolgono i campionati mondiali di calcio. E per fortuna che Chopin ha il bronzo nelle orecchie altrimenti queste trombette lo farebbero impazzire. Ridiamo. E lo vedo allontanarsi nel giardino, si china a raccogliere una foglia di magnolia, si volta, la agita, mi indica il verde sopra e il marrone sottostante. Mi dona un’ultima simbologia.

Leggo il suo manoscritto. Quanto scrive dell’interpretazione musicale vale anche per la letteratura. Per ogni arte. La leggo a voce alta. Se qualcuno passa da questa mia giornata la legga a sua volta e se interessato a una qualche inclinazione estetica ne conservi il messaggio.  

 

                                   

 

Cos’è caro Accio, la fedeltà all’interpretazione? Un mito. Non sappiamo mai con esattezza come suonasse l’autore. E chi ci dice che l’autore sia l’interprete migliore? Per parte mia l’autore è un signore che libera la sua opera, che se ne distacca e l’abbandona. Immagino strizzando l’occhio agli interpreti di oggi  e di domani. “A voi di suonare, a voi di tradurmi alla vostra maniera, senza cercare di imitare la “mia maniera” e senza seguire i consigli che ho potuto dare a questo o a quello, talvolta senza crederci troppo. Cercate piuttosto la vostra immagine nello specchio che vi porgo, forse è il modo migliore di rendere vivo il ritratto anonimo che vi ho dipinto. È pensando a voi e non a me che mi testimonierete la vostra fedeltà. Questo è il discorso immaginario, caro Accio, che metto in bocca a Chopin Brahms o Liszt. In materia di arte nulla è oggettivo. L’arte è soggettiva, appassionatamente soggettiva, oppure non è nulla.  

 

 

     


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