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:: Claudio Di Scalzo: Giorgio Ceserano a Pieve di Compito
07 Novembre 2013

 

 

 

 

 

        Giorgio Ceserano

 

 

EPITAFFIO

                                                                    Gli altri che t'amano e io

                                                                    — «è finita, finita, finita» —

                                                                    gli altri che t'amano e tu e io

                                                                    giustamente per sempre feroci,

                                                                    noi che ci perdiamo sempre

                                                                    apparendoci in lunghi corridoi,

                                                                    noi siamo — tu bene della terra

                                                                    inguaribile e noi di tanto niente

                                                                    gli eroi, vivi le anime del niente —

                                                                    siamo noi, gli altri che t'amano e io

                                                                    — «così finita finita finita» —

                                                           i morti della vita, e tu la tersa

                                                           faccia, che ci trattiene veri di dolore,

                                                           della sorte, della vita che è persa,

                                                           ultimo crampo di inguaribile amore.

 

 

 

 

 

 

Claudio Di Scalzo

IL POETA DI PIEVE DI COMPITO

La sua culla, che dondola in un aprile del 1928, è mossa da mani lisce. La madre appartiene alla piccola aristocrazia meridionale. Battezzato Giorgio. Cesarano il cognome. Si chiama così anche un paesino dell’amalfitano. A quindici anni indossa, arruolandosi, la divisa della Decima Mas. Bambino nell’esercito nero per la classica esaltazione guerresca che il fascismo distilla. Però il moschetto fra le braccia lo impugna per poco perché i tubercolotici non rientrano nel modello superomistico fascista. Ne soffre. E anche i nervi, pare. Finita la guerra e macerato dalla voglia di impegno, rovescia il segno del suo passato nel rosso. Entra nel PCI e lavora all’Unità. Qualche soffiata, forse incomprensioni, sicuramente appare estraneo alla casistica dell’intellettuale utile al togliattismo: come Bontempelli o Malaparte; e allora viene allontanato. Di sicuro il ribellismo individualistico nel PCI non fa strada. A Bergamo si occupa, come il padre, di antiquariato. Fra questi oggetti sarebbe facile, per me, far tarmire la mia disperazione in qualche cassetto. O accendermi a luci crepuscolari sul bordo del letto con una lampada liberty. Ma non fa per me!, si dice passandosi la lingua sulle gengive che a volte gli sanguinano. Comunque l’attività culturale bussa ai vetri del negozio. Ha le nocche di Fortini. Uno che se ne intende di compagni che scartano fuori dal binario dell’ortodossia per un’ortodossia più radicale. Per cercare vie più rivoluzionarie. E accidentate. La prefazione alle poesie di quello smilzo libretto, nel ’59, “L’erba bianca” ha questo intento. Sotteso. Alla Rizzoli ad annaspare fra risvolti di copertine e correzioni di bozze, si sente uno smidollato. Ma la poesia cresce e nel 1966 esce con “La tartaruga di Jastov”. Collabora a una sfilza di riviste che ogni intellettuale di sinistra tiene sugli scaffali: Aut Aut, Paragone, Rendiconti. Si unisce, e in certe serate è lui uno dei più esaltati nel proporre utopie rivoluzionarie, al gruppo “Ludd”, ispirato al mitico operaio inglese fondatore del Luddismo. Non prendono a martellate le macchine, Cesarano e i suoi amici, ma credono di farlo con la macchina del consumismo e con il funzionamento feticistico delle merci che smantella i cervelli. Teoria al posto del martello. Sudore. Esaltazione. Fremiti. Sigarette. E il buio attorno che i gruppi minuscoli attirano. Compare allora al cospetto della sua creatività la figura di Che Guevara. Un eroe comunista che mobilitò sentimenti e desideri di immense masse. Fra l’altro è già un simbolo. Scrive il dramma politico: Il sog­getto, sulla morte di Che Guevara - in Rendiconti, n. 17-18, maggio 1968, e un racconto-cronaca-saggio, a caldo, I giorni del dissenso, sulle agitazioni sessantottesche a Milano.

Partecipare-registrare-tacere-parlare-come fare letteratura sulla lotta di classe. E poi questo movimento sorprende, lui viene dal primo dopoguerra. È ingessato in casacche ideologiche seppur minoritarie di marxismo eterodosso radicale. Questi giovanotti portano i capelli lunghi e amano i Rolling Stones. Mormora agli amici. Non sanno nulla del Situazionismo francese. Guardano a Mao.

Il sottotitolo «Romanzo 1960-1966» dato da Cesarano, a “La tartaruga di Jastov”, volume che ingloba La pura verità, di tre anni precedente, ha un significato preciso. Andare oltre ogni lirismo. Abbandonarsi al racconto dettato da un espressionismo senza troppi filtri letterari. Dove il parlato irrompe, ruvido, nel concedersi a ogni esclamativa mimesi. Il suo “romanzo” a tutt'oggi lo rappresenta nella misura più completa. Poi la vocazione a diventare scrittore di cronaca politica abbandonandosi all’impeto polemico gli stravolse la fiducia nella poesia ancorché sperimentale.

Giunge il tempo dell’esilio. Volontario. Per scelta. Vado a consolare i pioppi in lucchesia, dice scherzando al telefono con un amico di Milano. Pieve di Compito eleva una piccola chiesa romanica. E i piccioni sulle grondaie hanno l’elasticità goffa e un po’ tocca di chi accetta tutto del mondo. Li osserva per ore. Intanto scrive. Esaltandosi per l’isolamento e la fuga. Elenca un “Manuale di sopravvivenza” secondando la tecnica degli amati situazionisti francesi. Il linguaggio è apocalittico e insieme aggrovigliato in una terminologia da rosa + croce del marxismo liberato. Imposta un’idea di rivoluzione algebricamente impossibilitata a trovare la lavagna degli uomini per elaborarla. L’altro saggio è una corposa “Critica dell'utopia radi­cale”.

Destinata, basta navigare sul web, a diventare oggetto di culto come qualsiasi fantasma assoluto di liberazione. Officiano neodadisti, artisti libertari, comunisti ribelli, e forse domani anche alcune pagine on line di TELLUSfolio. (Riferimento al giornale Telematico Glocale da me fondato e diretto dal 2005 al 2009 sulla sponda de l’annuario Tellus 2002-2009 sempre da me curato)

Questa “Critica” rimarrà incompiuta. Il 9 maggio 1975, a Milano, Cesarano si toglie la vita.

 

 

Quando insegnavo a Lucca, provenendo da Casciana Terme, dove avevo l’abitazione alla fine degli anni ottanta, sapevo che Cesarano aveva abitato lì. Più volte fui tentato di chiedere un appuntamento ai familiari. Poi uno del posto mi disse: «Veniva qui alla chiesa e fissava i piccioni». «Ci hai parlato», chiesi a quell'omino che accudiva un uliveto. «Una volta. Mi disse che i piccioni c’è anche chi li mangia». «Capita da queste parti, risposi io, anche le galline mangiamo. Lui stette in silenzio per un minuto. E poi sbotto in una frase mattoide: Mangiare gli animali che hanno il gozzo, il gozzo dove tengono, il grano, mi fa rivoltare lo stomaco». Chiesi all'uomo degli ulivi come reagì. «Pensai che i poeti vedono il mondo all’incontrario». Assentii comprensivo verso il mio anziano interlocutore. Non so più di chi ebbi pena, se di me che ero lì, se di un poeta rivoluzionario che veniva percepito così, se di quell’uomo che sapeva tutto degli ulivi e niente della debolezza contorta di chi scrive. Non mi sono fermato più a Pieve di Compito.

Oggi per L’Olandese Volante depongo questi ricordi in memoria di un poeta. E scelgo la poesia che somiglia ad una recita in solitudine sul bordo della ferita dell’esclusione. Giorgio Cesarano ne soffrì. Come sentì di soccombere nella delusione per ogni teoria che voglia liberare l’uomo. La morte per suicidio è soltanto una maniera per conservare intatto un sogno rivoluzionario per sé togliendolo agli altri che si teme stiano per tradirlo.

Di più non so.

 

 

 

 


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