:: Claudio Di Scalzo: Apologhi per il Serchio e dintorni. Con Libertario Nardi.

 
CDS: "Libertario Nardi in Albania" - 6.III.2013
 
 
 
 
Claudio Di Scalzo
 
APOLOGHI PER IL SERCHIO E DINTORNI
 
 
1
Il Serchio scrive per me questa lettera, la carta bagnata come  i polpastrelli che ieri m’accarezzavano, agguanterà la tua nudità intesa dal tatto e consegnata  all’ascolto.
Due sensi si prestano il senso, dentro il verso denso d’acqua che impasta schiuma e inchiostro nella corrente.
Ho gettato i fogli dall’argine dove giocavi bambino, nel punto esatto e agevole  – quando l’acqua era poca –  a saltare dall’altra parte. Spero da qui di raggiungerti.
Il Serchio ha cambiato corso nel VI sec. per ordine del vescovo di Lucca, San Frediano. Da allora lambisce Ripafratta, a ovest del Monte Pisano.
Le parole che ti dedicavo non esistono più, sono schiuma: il bianco ha cancellato il peccato della scrittura; come animale ferito che si lecca, l’onda lambisce il passato prossimo del mio pennino sulla carta.
Anche l’ansa del pube è stata deviata verso la tua tirannia amorosa. Non te n’eri accorto, fino a questa mattina?, quando la grafia ha disertato il tuo sguardo per la sciocca ripicca del carcerato verso il carceriere.
 
2
Marina di Pisa consegna un campo metafisico. In inverno spreme il sole come limone sulle nostre fronti.
Sei asprigna, dici, e mi raggiunge la tua lingua lì dove i raggi cercano la maturazione.
Questi viali tanto ampi - già piste d’atterraggio per i G50 dalla Regia Aeronautica, durante la Grande Guerra - offrono un corrimano ascendente alla mia fantasia surrealista.
Amo gli intonaci che cadono, pezzando le facciate a Villa Ruchal e Villa Belliure. I drappeggi liberty sono appena rammendi sdruciti dall’alito salmastro: rivelano regole difformi alla mollezza balneare del blasone vacanziero di queste rive.
È tutto in disarmo, anche il tuo sorriso indispettito davanti a certe mie cerimoniose stranezze.
 
3
Dalla Rocca di San Paolino, Massaciuccoli sembra un’iride stemperata nel torpore pomeridiano che, a marzo, imita la primavera. L’ascesa al colle Vergario è la diramazione del nostro amarci. Dove piega la strada, dolcemente divaga il respiro. Esiste un punto in bilico nel vuoto, in cui nulla somiglia più a ciò che è: non esiste più il budello di Ripafratta con le sue poche case infilzate a terra come lisca di pesce; non esiste Vecchiano, sprofondata nel verde indomabile dell’entroterra lucchese. Qui leggevamo i falchi di Jeffers.
Non ti sembra l’ossigeno ci succhi l’azzurro del suo cielo?
 
4
Sbuffi di vento t’illuminano i capelli in lampi violacei, dietro cortine di nuvole che accendono e spengono l’orizzonte. Marina di Vecchiano è un’infermità dell’anima. Refoli rigettano in grembo, annerendola, l’indecisione incisa dietro le tue palpebre. “La sabbia sembra grattugia”, ti dico, “come i tuoi Zeppelin”, quest’oggi.
 
5
L’abitudine ad abitare le pagine dei libri l’ho presa da bambina, durante i lunghi periodi di malattia, in cui le uniche a parlarmi – passando dal buco della serratura come in una clessidra – erano le ore. Qui a Vecchiano ho disvelato il segreto dell’ascolto. Abitiamo stanze e scaffali con la stessa dimestichezza del ragno che pazientemente intessa il suo più prossimo futuro e, contemporaneamente, un bozzolo capace di contenerne il corpo. La pazienza, però, si lega sempre all’attesa della caccia, in quest’angolo della casa; e la scrittura diluita sul bianco della fronte non spegne il desiderio di morire, nonostante tutto, assieme alla parola “FINE”.
 
6
Dietro: dune e ciuffi d’erba dadaisti, spalle al mare. San Rossore freme nella luce serale.
Qui Friedrich avrebbe dipinto me, Karoline, damascata nell’ora che sfinisce il canto delle cicale. Come rappresenteresti il tuo amore per me? Certo incollando tra loro frammenti discordanti come  labbra imperlate di sabbia, sprofondato nel petto di un col-la-ge scambiato per il mio de-col-té.
Ma tu, sentinella rossa d’avanguardia, non comprendi la necessità di respirare con tutti i sensi l’ultimo esito romantico che quest’aria imprime?
Sarei la tua “Signora alla luce del tramonto”, sotto l’ascella siderale del primo buio, dietro l’orizzonte che piega sopra le nostre spalle; e ti dovrebbe bastare, di me, questo cameo. Invece aneli alla scomposizione, popolano demiurgo d’una nuova estetica d’amore.
 
7
Da Piazza Garibaldi, svoltata poi via Indipendenza, mi sento a casa… E tu non ci sei.
Sei rimasto al mare dopo il litigio, piantato come uno scoglio (“Senza te la solitudine è perfetta”, hai detto, “con te c’è sempre la necessità di condividerla!”): ma i tuoi genitori han reciso con l’affetto questo virgulto d’indifferenza. Tuo padre ha riconosciuto sul mio viso, arrossato, le tracce del tuo passaggio, lo sfregamento della lingua rasposa con cui delimiti un territorio troppo vasto da esplorare: è la sua semplificazione, ha detto  – in realtà già atto di sottomissione al sentimento che segna e spaventa, come un marchio rovente del pensiero.
 
Se solo tu sapessi attendere, dietro al bisogno, sarei la devota rappresentazione d’ogni vastità turbata dal tuo sguardo.
 
 
8
Cos’ha panificato la notte al nostro abbraccio?
Sei stato attento che tra le mie ossa non ci fosse spazio perché germogliasse il seme? Non vuoi un figlio: perché siamo giovani, dici. Non credo all’anagrafica compiuta o incompiuta dell’amore che lega due destini più stretti che se fossero già un corpo solo.
Cos’è che, mentre cresce, ti diminuisce, fino a spegnere la luce nel buio del mio ventre?
Marina di Vecchiano accoglie tra le dune solo gli accoppiamenti, tralasciando gli esiti più fausti, che sgorgano in sangue e sperma, nella donna e nell’uomo?
Non sono tagliato per la famiglia, hai sussurrato alla mia spalla che tremava. Con questo hai creduto di rasserenare il cielo.
 
 
9
A Santa Maria in Castello è dispensato lo sguardo pacifico di Dio. Accanto alla croce sono la pupilla espansa nella preghiera, e ciò che sotto di me si concretizza, la luce subito rivela.
Vedo casa tua - più in là mi indichi Piazza dei Miracoli. Tu non te ne accorgi, ma qui in alto neppure tu sai celarti come quando abitiamo le stesse similitudini. Divento un unico senso, e ne ho sei – sempre uno più di te – con cui giocare.
Stiamo in silenzio per un’ora, ed è come ritrovarsi, quando ce ne andiamo.
Sopra di noi volteggia silenzioso il falco. È sorprendente la sua immobilità. Non te lo indico, e tu non te ne accorgi.
 
10
Il Campo alla Barra disperde semi, come un’anfora scoperchiata. “È la primavera”, mi sorride tuo padre, e torna al lavoro. Ci vorrebbe mettere gabbie per conigli e galline, ma poi è inutile perché i fascisti glieli verrebbero a rubare – “Per sfregio”, dice, “non per fame. Fosse per fame li lascerei anche fare”. Questa è la sua poetica, Fabio, vera militanza alla Majakovskij. Il comunismo con lui non ha fallito, e questo te lo ricorderai quando lui non ci sarà più, e ancora ti rincorreranno i fascisti, per rubarti tutto ciò che hai vissuto assieme a me.
 
11
Il cielo illividisce i contorni nella pineta, a Marinella di Sarzana. Diretti a La Spezia ci incagliamo come palloncini tra le sue fronde. La mattina è ancorata intorno a me, mi lavora i fianchi il vento come dentro un tornio. Insomma, il mare d’inverno qui si fionda, lancia frammenti d’immaginario come segni d’abbandono o di rinuncia.
“Qui la nostra guerra è persa!”, ti annuncio (mi chiami “estrosa” e tutto ricevo da te qui come un minuzzolo di salvezza). Mi mette allegria pensare che ci siamo persi prima di arrenderci.
 
12
Il vetro si intromette tra le nostre febbri. Opacizza e non chiarisce. Infatti tu ci respiri sopra e riscrivi la fine, come si trattasse d’un gioco e non della sostanza che ci estrae.
È trasparente ciò che separa, inesplorato confine del mondo: e si manifesta sempre qui, in queste due stanze, mentre la magnolia fischietta nel vento la sua indifferenza (o solo la mancata partecipazione?) a quanto avviene dentro. È piena di leggende questa casa. Tamburellano tra le mie tempie il tempo esatto d’un distico – tu dici ‘è la pioggia’ che a goccioloni marcia sopra la finestra già da ore - kamikaze del nostro amore - come un accento su ciò che muore.
 
13
Torna a chiudersi l’Arno tra le nostre dita. Intreccia la Chiesa della Spina il destino con divinità incapaci a proteggerla dall’inondazione. Pisa è tutta in bilico su queste dieci dita: l’intreccio è una diga che benefica si scorda della sua immortalità. Come giocano gli amanti tra una sponda e l’altra!, ogni ponte è la prossima vita in cui si ritroveranno – vergini – dentro un altro piacere.
 

da "Le età dell'angelo svizzero Karoline Knabberchen"