:: Claudio Di Scalzo: Incuba. Lettera alla compagna Nara

 

 

 

 

Claudio Di Scalzo

INCUBA

Compagna mia, Nara, stamani dopo una notte tra le grinfie di Incuba devo proprio scriverti; un’ultima volta, dopo non so se Incuba ancora me lo permetterà, per rivelarti le mie scoperte e sono convinto che leggendomi tu uscirai dal tuo silenzio verso me. Che ha lasciato soltanto questo indirizzo postale verso la tua Bologna. Anche se non so se stai ancora in questo appartamento. Se mi leggerai. Se la lettera non andrà perduta. Diventando un altro scherzo orribile di Incuba verso me. Potrebbe infatti convincermi che ti sto scrivendo una reale lettera mentre invece la sto sognando oppure la trascrivo a occhi aperti sul soffitto stando sdraiato sul letto. Dove da giorni non mi alzo. Il 1977, di settembre, a Bologna ha lasciato un compagno morto come Lorusso, di Lotta Continua, sull’asfalto e adesso in questo febbraio 1978 il clima è ancora terribile e lo sfacelo sui movimenti rivoluzionari totale. Ti scrivo da Livorno dove vivo con mia madre e mio padre. Ed è qui, nello studio, incautamente chiamato di pittura, che ho nel cascinale verso il mare, dopo Montenero, che sta Incuba. Il piccolo disegno che tu vedesti venendo qui anni fa.

E questo che cos’è? Mi chiedesti. Questa è INCUBA. Risposi tranquillo. Potevo esserlo, sulle Mura di Lucca, posandomi la mano sul petto, mia guaritrice, me l’avevi estirpata dai pensieri dalle ossa dal sangue. Non faceva neppure più tanta paura. Un semplice dipinto a china grande 20 x 30 con tecnica mista. Incuba ti dissi, è la bestia malata che mi prende in sé, che m’avvelena, quando l’amore in cui credo scade, finisce, diciamo uno a decennio, e siccome ciò avviene per colpa mia - tu sei stata esplicita, hai distrutto tutto!, mi scrivi, io do il colpo finale - , per i miei difetti e follie, cosa che non ammetto, Incuba si nutre di ciò per farmelo riconoscere, e appena lo riconosco mi fa soffrire il doppio. Ah sì, lo so, che in questa faccenda il materialismo storico di Marx niente può. Se vogliamo trovare dei parenti di Incuba forse stanno nei deliri e nelle allucinazioni dei racconti di Poe e Lovecraft e nei Diari di Kafka. Ma lascia perdere, Nara, andiamo a mangiare questo cacciucco che ha preparato Cesira e Diomede, ti dissi.

Incuba è tornata con tutta la sua grifagna possanza in questo febbraio, Nara. Si è sempre nutrita, per agguantarmi, della Parola. Di poche parole. Le più lontane sono quelle rivolte a me, da “scacciato” monello, da qualche compagno o compagna di giochi, da un maestro, dai miei genitori che nutrivano Incuba nell’Inferno Domestico; parole che mi giungevano da chi amavo e dai quali avrei voluto essere amato, riconosciuto - anche tu Nara hai vissuto monella come me nel desiderio d’essere amata tanto nonostante il gorgo domestico, ricordi che me lo confidavi? e come ti abbracciavo a Brescia? - anche se diventavo aggressivo, per avere conferme, protezione, per essere accettato come ero. Per guarire da Incuba. Per imparare ad amare e a volere bene. Come dice il Vangelo che tanto spesso ho disatteso. Saltando subito ai chiodi della Croce per un posto da Ladrone.

Parole come “Tu come pittore ti nutri del sangue del nostro amore”; “Tu sei un uomo inaffidabile!”; fino alle tue di parole: “Tu strozzi le idee in chi ami”. Queste parole nutrono Incuba che poi è il male e la malattia, e si rivela a me stesso dandomi la condizione dell’ostaggio, del sacrificato, sopra un altare, nostro, di immagini e giorni che avanti e indietro, da sveglio nel sonno, mi trascinano. Non sto più in equilibrio nel reale. Nella glottide poi giù fino alla laringe l’alfabeto si mischia con spine vetri lame. La tua mano mi aveva trascinato via da questo inferno ma la frase che io “strozzo le idee in te” lì mi ha ricondotto. Il tuo silenzio, che chiami adatto a sviluppare “Il miracolo della muta comprensione”, che sta accosto al “grande amore” per me, così mi scrivi in una lettera, è diventato, grazie ad Incuba, “L’inferno dell’urlata incomprensione”. E se, adesso, ricordo che tu pronunci le "s" come le "z", comprensione-incomprensione, un sentimento di tenerezza alto mi prende e subito Incuba trasforma questo valore in qualcosa da ficcarmi nelle pupille come spillo perché ti vedo vicino a me a Bologna che usi le "z" e io però sono zozzo zotico zavorrato da quanto mi trascina in un rimpianto irredimibile.

Tu studi e scrivi sulla pittura dell’action painting ma se tu avessi studiato la tragedia greca forse avresti potuto ricavarne suggerimenti da come Incuba mi perseguita. Nel gesto di Pollock però c’è il Kaos e forse anche queste sgocciolature a caso fiammanti ti faranno intendere la mia malattia che mi sparge pece o zucchero avvelenato sulle giornate stroncandomi ossa e pensieri.

Ti prego, Nara, aiutami. Sono veramente in pericolo. Anche per l’età che ho. Cinquant’anni sono tanti. Basta un bigliettino, una telefonata. Tanto io passo le giornate in questo atelier - non voglio che i miei familiari mi vedano in questo stato, non riesco più fingere come in passato una calma che non ho - vicino al telefono accosto alla cassetta della posta. Con Incuba che mi sbeffeggia per come si è ridotto un rivoluzionario della vaticinata armata rossa proletaria italiana. Oppongo ad essa la figura di Majakovskij e allora uscendo dal campanile dove abita, nel disegno, che poi è anche un punteruolo ghigna: “Appunto!, fai come Majakovskij, ucciditi!”.

Incuba, a somme tirate, a sottrazioni svelate, a divisioni completate, a moltiplicazioni rotolate, penso sia una commistione stravagante - anche burlesca, soffro come una bestia ma che fa anche ridere se mi guardo allo specchio, non m’è concessa la pura tragedia! - di isteria e psicosi debole. E Incuba mi suggerisce malvagia che anche tu hai qualche follia addosso sennò non ti saresti mai innamorata di me. Stando tutti questi anni vicino a un delirante pittore che non combina nulla anche se i suoi dipinti il gallerista afferma che sono d’alto conio.

Però d’andare dallo psichiatra non ci penso nemmeno. Dovrei dirgli della “Mano sul petto” che mi guarì, della parola coltello che ho nella glottide e laringe che mi ha fatto ammalare, di come Incuba mi cucina la vita quotidiana. Pensi possa credere al potere di un dipinto tanto piccolo su di me da una vita!? Impossibile, lo dipinsi trenta anni fa quando sembrava che mi nutrissi della sofferenza di chi amavo per fare la progettata grande mostra, anzi già fissata, a Milano, allo Studio Marconi, mostra a cui poi rinunciai, per non rendere vera la frase che la mia fidanzata di allora mi aveva consegnato: "Vuoi il successo in pittura col sangue del nostro amore come colore magistrale", ma Incuba di queste generosità se ne infischia.

Incuba mi punisce, come un’aguzzina. E io non posso fuggirla. Ho troppo dipinti fotografie e didascalie di noi assieme. In alcune intrecciamo i tuoi scritti di saggistica (ah, ho letto che sarai a Firenze, a fine marzo, per un Convegno sulla “Pittura nell’anarchia ieri e oggi” con riferimento ai fatti di Bologna del settembre scorso, ma perché non hai pensato a raggiungermi con mezzora di auto qui dove sono? E’ così tanto tempo che non ti vedo! Nara! Ecco… mentre parli al microfono mandami un pensiero, Incuba allenterà la presa sapendo che ancora mi ami e che forse tornerai a posarmi la mano sul petto) con i miei colori, in altre le fotografie che ho scattato hanno le tue descrizioni. Allora sto in questi disegni e fotografie invece che con i piedi sul pavimento e sguscio in alterazioni di parole da dire che mi dico da ricevere che invento, e tutta questa pioggia mi fradicia il respiro.

Per sfuggire a Incuba alle immagini di noi assieme disegnate e fotografate e scritte, recito, quanto accadde tra noi prolungando i giorni felici nelle città che raggiungemmo, oppure mi figuro che sei qui, alla porta, che hai rinunciato al Convegno, perché il vero anarca selvaggio lo vuoi abbracciare. La parola che conta è quella che abbiamo inventato assieme e poi vuoi uccidere Incuba e liberarmi. Se lo merita quest’uomo che mi ha disegnato così tante volte che le tavole non entrano più nel suo studio, per starmi vicino, per baciarmi le labbra anche se erano tremanti per i miei dolori dopo l’incidente d’auto. Che ci ha tenuto lontano due anni!

Nara, Nara, in questa tua venuta, un po’ nel sogno un po’ sfogliando realmente i miei disegni, così ti vedo, stamani tu mi carezzi, e scopri che Incuba addirittura ha sfruttato il mio bene per te, per darmi senza requie gli stessi dolori che tu dopo l’incidente d’auto hai provato in ospedale. Non muovo la mandibola, come dovrei nel parlare, sento i miei organi fiammeggianti che si spostano come in un gioco assurdo, il fegato al posto del cuore, il polmone nelle viscere. S’induriscono le gambe i polpacci sono marmo. E se addirittura voglio parlare a voce alta su quanto mi sta accadendo boccheggio come un pesce. Almeno con la lama nella glottide qualcosa riesco a spruzzare fuori per sentire vivo il pensiero.

Ecco!, ora mi metto accanto a te, nell’ospedale dove sei stata, nel letto, lo so che non ci sei più, che a breve stai andando a Firenze convalescente ma con una salute accettabile al convegno, dove riconosceranno il tuo talento critico, e Incuba s’accorge che se dico son felice per te pure sono disperato di non esserti vicino al convegno! che tu non ricordi neppure un tantinello il tuo pittore!, e mi lavora di bulino, le ossa, e l’immaginario, però insisto a stare nel letto in due: da ammalati!, e tu volgi il collo e il volto verso me, anche se ti procura lancinanti dolori, e mi sorridi, e dici che ancora la mano non puoi posarla sul mio sterno per guarirmi, ma che appena possibile caccerai ancora Incuba. E io so che non vivrò più di furie, di mostruosità che generano Incuba, di volgarità, e senza più bisogno di dipingere e scrivere lettere per dire come amo desiderando sia per sempre, basterà che pianga una volta per tutte sulla mia solitudine provata fin da bambino di sette mesi, "conigliolo spellato" mi definì mio padre, sempre solo, anche nella ventilata rivoluzione italiana, e Incuba di questo se ne approfitta, Nara, ma se tu non mi lasci al mio destino, avevo solo te nelle mie giornate in tutti questi anni, allora anch’io avrò qualcosa di immenso e che varrà tutto quello che ho sofferto. E anche per te sarà lo stesso. Perché anch’io avevo pensato di salvarti. Sentendomi un rivoluzionario nel nostro amore che vince la dannazione della vita. A me Incuba, a te la ferocia di chi ti spella la mano, di chi ti gira il volano per incidentarti. Abbi fiducia in me compagna. Sono adatto anche se matto per la nostra rivoluzione in atto nella guarigione. Assieme. L’isteria funziona con le rime, sembrerebbe. Rispondimi Nara. Rispondimi. Dammi il tuo soccorso rosso. Mano compresa ancora dove mi morde Incuba.