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:: Piero Bargellini e Dino Campana - II
17 Aprile 2013

 
 
 CDS: "Dino" - Tecnica mista su carta, 1976
 
 
 
 
LA TOMBA DI DINO CAMPANA
 
Giunge il custode, con una busta di cuoio assicurata alla canna maestra. Appoggia la bicicletta al muro, apre il cancello e tutti gli fan ressa d’intorno.
Quand’entro, per ultimo, gli altri si sono già sparpagliati tra le tombe, ognuno al suo lieve lavoro di ripulitura e di ornamento. Sembra anzi che si siano nascosti dietro i cipressi, le lapidi e i cespugli, e il camposanto appare deserto. Soltanto il becchino, grande quasi come uno dei cipressi interrati, fermo di contro la cappella funeraria, in fondo al viale, mi guarda.
Vorrei cercare da me la tomba, leggendo uno per uno i nomi sulle croci, ma mi avvedo che non potrò sfuggire al custode che mi osserva. Sono l’unico che egli non conosce. Lo sento con gli occhi addosso a me, mentre getto, di qua, di là, qualche sguardo sulle tombe, sfuggendo sempre la sua persona. Infine capisco di non poter far oltre l’indifferente. Giuntogli a fianco, gli alzo gli occhi in viso. Ha il volto sano, largo e ridente. Un leggero lustreggiare di sudore rende quel viso anche più aperto.
Chiedo dove sia la sepoltura dei pazzi di Castel Pulci, e solamente quanto egli mi indica due quadrati fiancheggianti la cappella, mi accorgo che il camposanto è diviso in quattro, dal viale in un senso, da due muri nell’altro. Sul davanti sono così due campi rettangolari, pei morti del paese. Più arretrati, due campetti quadrati pei pazzi di Castel Pulci. Gli uni sono divisi dagli altri con due muretti: i morti pazzi, dai morti savi; o meglio, gli ospiti sconosciuti, dai paesani rimpianti.
Guardo le poche croci che tra l’erba sono ancora dritte. Su ottanta tombe quasi livellate dal tempo, cinque o sei croci dritte, e su nessuna di quelle riesco a leggere il nome di Dino Campana. I due campetti quadrati sono due prati chiari, d’erbe leggere. Un verso mi viene alla mente, un verso isolato tra due silenzi di puntini:
E si estingue il loro verde canto.
 
So come di disfanno gli ordinati campi di morti, e come le ossa, dopo dieci anni, escano dalla terra giallastre e piene di finissime radici bianche, che hanno succhiato anche nelle porosità del calcare. So come sia pulita la pulizia di questi resti umani e mi viene d’accarezzare l’erba che onda, viva e leggera, sotto il vento. Erba flessuosa e sottilissima, che si piega già per il peso di glumette appuntite. Chiedo al custode come si chiami. – E’ avena selvatica, - mi risponde arrossendo, perché forse crede che nella mia domanda sia nascosto un rimprovero. S’affretta perciò a dirmi che il venti maggio la falcerà; prima non può, né deve.
Vorrebbe sapere di chi cerco la tomba, se è mio parente, se amico. Nessuno finora gliene ha chiesto. Quasi tutte le croci sono cadute marcite, ma egli a casa conserva la pianta coi nomi di tutti. Si offre di andarla a prendere subito, in bicicletta. Mi oppongo. Egli insiste mortificato. Lo fermo lungo il viale come un amico, assicurandogli di non aver fretta, e gli prometto di ritornare. Egli ritroverà, con l’aiuto della pianta, la tomba, e vi rizzerà sopra una canna fenduta, col foglietto dove intanto ho scritto il nome.
 
PIERO BARGELLINI
 
 
Frontespizio, maggio 1938, XVI, Vallacchi editore, Firenze. Seconda parte
 
 
 


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