:: Nicola Lisi: La Bambola. Con disegno di Chiara Catapano

Chiara Catapano: "Nicola Lisi" - febbraio 2013
 
 
 
 
 
 Nicola Lisi
 
LA BAMBOLA
 
Onofrio si recò al paese per il viottolo lungo il fosso.
Lo distolse dalla pace mattutina l’abbaiare di un cane non molto lontano, forse lungo il fosso stesso. Affrettò il passo soffermandosi a ogni slargo o radura sinché scorse il ponticello di una strada che attraversava il fosso e poi, più in là, al margine dell’acqua, il cane.
Onofrio non aveva pratica di cani; quello era grosso, di pelo bianco e ricciuto. Dette uno sguardo alla sua robusta mazza e proseguì fin sul ponte.
Il cane abbaiava, proteso al corpo di una bambina che giaceva in fondo all’acqua.
Onofrio si abbandonò sul parapetto per l’impotenza delle gambe; tremava e dalla pelle gli usciva il sudor ghiaccio.
Ma la volontà riscosse le membra, si alzò e senza la mazza, che aveva posata sul parapetto, corse all’acqua.
Gli si dilatò il petto, alzò le braccia, sorrise: quella era una grossa bambola, non una creatura. Un sasso a forma di scaglia la tratteneva ai piedi. Era vestita di roba celeste; i capelli biondi, discioltisi, vibravano fino al termine della sottana. Sopra vi scorreva acqua chiara, veloce a cagione di una prossima cascata, dopo la quale, temporaneamente, il fosso si perdeva in un ammasso di pietre a sovvallo.
Onofrio uscì dal profondo interessamento; riudì il cane e lo incitò verso la bambola. Il cane si slanciò nel fosso. L’istinto gli impediva di calarsi sott’acqua.
Si reggeva a nuoto con le zampe anteriori soltanto, perché le altre annaspassero tese in profondità; ma persisteva l’insuperabile spazio liquido.
Onofrio s’impietosì dei brevi, inutili giri e lo richiamò a riva. Il cane obbedì e prese ad abbaiare.
Onofrio scacciò il pensiero di spogliarsi per entrare nell’acqua. La mattina era limpida, ma sul fosso si muovevano ariette gelide. Sarebbe stata una pazzia arrischiare un male per pietà di un cane. E poi la sua era soprattutto curiosità. Ebbe l’idea di un espediente per lavare la bambola dall’acqua senza bagnarsi nemmeno la mano.
Prese il coltello di tasca e un giovane ontano, che aveva al fianco, tagliò un ramo a guisa di uncino. Lo affondò mirando ai piedi della bambola per agganciare la sottanina celeste. Sbagliò di poco direzione come accade agli inesperti in simili esercizi d’acqua; colpì la scaglia di pietra che pareva fissata nel fondo ed era appena trattenuta dalla melma.
La bambola si mosse con la corrente.
Il cane cessò di abbaiare; gemette in un lungo pietosissimo guaito; si ributto a nuoto e sulla superficie dell’acqua scomparve dietro alla bambola.
Per la campagna persistevano le dolcezze del mattino, ma Onofrio aveva persino dimenticato il bel proposito col quale aveva lasciato la strada maestra e si era incamminato lungo il fosso. L’accaduto, poi, già gli restava impresso in immagini separate, come ricordo di un sogno.
Si sedette sul parapetto. Aveva raccolto un sasserottolo da terra e scriveva in una pietra liscia perché sfaldata a lavagna: cane, bambola, albero.
Raccoglieva l’avvenimento nella essenzialità dei nomi.
Per un improvviso desiderio, come un silenzioso richiamo, guardò in alto. Di là dal fosso, su un albero, a cavalcioni di un ramo, fra le alte frondi, v’era un uomo che si faceva spazio davanti. Onofrio si alzò in piedi. L’aspetto di colui che restava immobile sulla pianta, lo sorprendeva ma anche lo rasserenava. Aveva il viso magrissimo; accentuato in lunghezza dalla soffice barba.
Onofrio gli disse amabilmente: “Scendete, badando di non farvi male”.
Discese. Già nella proporzione con l’albero si rivelò la eccezionale statura e sottigliezza del corpo, che a momenti spariva dietro il tronco; donde l’armonia del viso. Si recò al ponticello. Senza bisogno di chinarsi lesse ciò che Onofrio aveva scritto sulla pietra e disse: “Aggiungete Ettore, perché così mi chiamo”.
Onofrio scrisse. Rialzò il capo e rimase colpito dagli occhi di Ettore, grandi e in un’opaca luce uniforme, simili a quelli, sempre afflitti, degli animali domestici.
Ettore s’avvicinò all’altro parapetto.
“Venite – disse – c’è anche qui una lastra levigata”.
Onofrio restò perplesso; ciò che aveva fatto senza neanche rendersene conto, ecco che piaceva allo sconosciuto. Gli si avvicinò mentre costui si sputava sul palmo della mano, che strofinava su una pietra del parapetto.
“E’ migliore dell’altra scelta da voi. Accomodatevi, si tratta di poche parole”.
Onofrio pensava di opporsi e anche di proseguire il cammino, ma si sedette presso la pietra designata.
“Cominciate col mio nome”, disse Ettore.
“C’è sull’altro parapetto”, rispose Onofrio.
“Bisogna ripeterlo qui perché anch’esso torni nell’ordine”.
Onofrio compitava le sillabe come accade a chiunque scriva sulle pietre.
Ettore rispose: “Sotto il mio nome: seggiola di ferro”. Si corresse: “No; seggiola, soltanto”. Continuò: “bambola, Maria, cane, fosso, albero. Il vostro nome in fondo”.
Quando si fu sottoscritto, Onofrio si alzò in piedi. Quello scrivere faticoso cominciava a stancarlo.
“Mi sembra di capire, tranne Maria”.
“Maria è una mia figliola e per lei avevo preso la bambola”.
Reclinò il capo e continuò con voce attenuata, sembrava, dall’intenso pensiero: “Vi ringrazio d’avermi liberato di lui”.
Onofrio guardava lungo il fosso, ond’ebbe il momentaneo sospetto che avesse evocato la forma di un cane del tutto simile a quello che si era manifestato per il fedele custode della bambola. Ma era una realtà e non una improbabile forma. Gli apparve da sotto l’intreccio di bassi e folti rami di due piante al lato del viottolo. Aveva davanti al muso la rosea testa della bambola, spezzata al collo e tenuta stretta coi denti per i capelli.
“E’ tornato”, disse.
Ettore levò il capo. Con un giro dello sguardo si rese conto che ormai non avrebbe raggiunto con vantaggio sul cane uno degli alti alberi. Prese una risoluzione nella paura. Si calò giù nel fosso attenendosi con le mani al parapetto. Non aveva fatto nessun calcolo: egli era troppo alto perché non raggiungesse l’acqua. Vi affondò fino all’anca.
Onofrio salì in piedi sull’altro parapetto.
Il cane passò dal ponticello con assoluta indifferenza per i due uomini, o meglio per Onofrio, che era visibile. Forse non lo scorse neanche e non lo avvertì con l’acutissimo olfatto, immerso com’era nel casalingo odore della bambola. Proseguì col suo trotterello regolare lungo la strada, sicché scomparve, dopo una ondulazione del terreno che era anche il segno dell’orizzonte.
“Non si vede più”, disse Onofrio.
Ettore scavalcò il parapetto e rientrò nella strada.
“Non posso fare diversamente”. Si levò i pantaloni e rimase in mutande. Li stese su uno dei bassi ontani, bene illuminato dal sole. “lassù vi splende più liberamente e la terra non lo divora.”, aggiunse con profondissima convinzione.
Si recò all’albero spoglio e vi salì con prodigiosa agilità. Le mutande erano dello stesso colore della scorza del pioppo; a cagione, quindi, della giubba nera sembrava un mezz’uomo lassù, un mezz’uomo in bilico sopra un ramo.
Onofrio lo salutò con un cenno della mano ed Ettore con un cenno di mano rispose.
 
(1939)