:: Gino Berbenni: Poesie I

 

Claudio Di Scalzo

 Archeologia Editoriale - dalle Alpi allo Ionio

 

 

Gino Berbenni, valtellinese, a quanto mi suggeriscono le sue poesie, appartiene al cielo ermetico (e ora da qualche parte vi dimora stabilmente, a tutti gli effetti, se posso essere ironico) e altre scarne notizie m’informano che partecipò al Premio Nazionale di Poesia Città di San Pellegrino Terme organizzato dalla Rivista di lettere e arti Misura nel 1948 ricevendo una segnalazione e che poi questa sua partecipazione ebbe nella collana della rivista, con il numero 10, nel 1949, un’edizione in libro di suoi versi dal semplice titolo di “Poesie”. Diciassette componimenti scritti fra il 1940 e il 1948. Più una traduzione dal poeta spagnolo Becquér. Gli esemplari furono trecento, il mio è il centocinquantottesimo. Altro non so. Certo si affidò al sogno che la parola potesse vincere su ogni dimensione del reale come da tempo sostenevano i nipotini italiani di Mallarmé. Sicuramente i critici Ettore Mazzali e Giorgio Luzzi avranno scritto qualcosa su questo autore, ma al momento le uniche tracce in mio possesso sono le sue poesie, e da sempre è quanto vale per un poeta. 

 

 

BELMONTE CALABRO 1944


Qualcuno abbia pietà dei miei segreti

Li conti sul mio corpo come piaghe

Rasciughi le ciglia di ognuno
ove luccica ancora una preghiera

Su chini su me
stenda la mano
mi doni ombra

Solo in questa eternità
senza patria
senza famiglia
mi stringo i polsi fra le mani
e provo ancora il piacere
di un gesto inutile



MALGRATE


Tu sei lontana più dell’orizzonte,
ma qui su questa strada io ti sento
nell’alito dell’aria respirare,
ti inseguo sui binari nel fragore
di ruote che ti portano
un mio invisibile saluto.

È saturo di te questo colore
ancora tiepido che vibra
il tramonto dei suoni e delle voci...
Forse è già sera dietro le mie spalle
(la troverò improvvisa sul ritorno
coi primi lumi che annunziano Lecco),
forse già è calata sulla valle
un’altr’ora di tutti e di nessuno...

Ma tu vivi nel fondo del mio sguardo
che si strozza nel giro di una curva,
nell’ansia di forzare la barriera
che mi vieta altro asfalto.

Oh carpire un tuo segno laggiù
dove più alto
si fa il muro di sogni
dietro il quale tu ignori.



PIAZZA SAN MARCO


Al tuono della banda
improvvisa è scoppiata
la rosa dei colombi

                                              



PONTE SULL’ADDA


Dura ancora il colloquio sopra il ponte
con la ghiaia ai tuoi piedi che sorride.
Dura ancora, e il murmure dell’acqua
mi ricama paziente la tua voce.

Sei scomparsa così, come un mattino
trepido di presaghe e pure luci,
seguito da una sera tremolante
al di là di una lacrima infinita.

La spalletta li intese i giuramenti
fatti vani dall’ombre della sera
che ora ti contende al mio richiamo:

forse qui si posava la tua mano,
dove or premo lievemente la mia
che mi ritorna il freddo dell’acciaio.



TORRI DI FRAELE


Qui dove il lago finge la montagna
bisbiglia il rododendro che s’arrossa,
fende la trota a colpi fra le nubi
il varco che l’annotta.
Nei pini cresce l’ombra che l’infolta,
dopo un tonfo il carrello già scompare,
ronzano i cavi al salto, dietro al nulla:

dunque tutto sta qui, nell’aspettare?



VILLA REGINA


Quel punto lontano

che scivola sopra la neve

che sta per sparire

all’ultima svolta

del viottolo

sei ancora tu

a cui ho teso la mano

e ho detto addio

pregandolo che non si voltasse

(anche così i tuoi capelli

che ondulano molli il tuo passo

sono il tuo volto

che non voglio vedere,

perché non potrei sopportare

il tuo sguardo d’addio).


Ti ho detto anche

che non voglio incontrarti mai più.

Ora vorrei gridarti di tornare.

Ma sei troppo lontana ormai

ed io non ho la forza del tuo cane

che latra gioioso dalla villa

la tua vicinanza.

Non mi resta che andare,

staccarmi da qui

con un’altra pena sul cuore;

per sempre sulla tua strada

ma in direzione contraria

per non trovarci mai più.


Ma tu non sei un punto laggiù,

ancora un punto che va.

Perciò non ti posso lasciare,

punto lontano che vai

portandoti dietro

la mia felicità.



SERA DI PRATO VENOSTA


La lucertola scatta nel barbaglio; 
già tramonta col vento la campagna 
che si smorza sul pallido infinito. 
Nel buio fischierà l’ultimo treno: 
lo attendo stasera sul viale 
che perde l’ombra e s’incupisce 
(anche me il vento cancella, 
sola ombra più cupa).

Sera di Prato: pausa di pace 
vicino ad un bicchiere di lampone; 
due uova friggono in cucina per me; 
di sopra, il letto ha un guanciale di piume 
(se vi affondo la mano essa scompare 
nel tepore di un nido), bianche lenzuola; 
e la pergola inquadra fuor dei vetri 
il silenzio dei grilli. (Se mi sporgo 
odo voci salire nella sera, 
voci serene tra il fogliame).

La mia casa è di là, oltre 
il confine di nevi: la vede 
l’aquila che non ha frontiere; 
forse la penna sul cappello 
la vide un giorno. Ogni ricordo 
qui rinasce riflesso nel domani.

Sera di Prato che non ha ore 
per la memoria. Si è pronti 
a un difficile domani, 
si pensa a un nome, ed anche 
la tristezza è più lieta, 
e si calma l’arsura del tabacco 
col frizzo del lampone:

ancora un poco, 
anche se è tardi, 
anche se ormai la tua voce dondola nel sonno, 
ancora un poco di te, 
sera improvvisata.



TRAMONTO DELL’ESTATE


Ma tutto è ancora tuo:

la caligine di fine estate

che piomba sull’orizzonte,

la folgore sul pino,

l’estremo mulinello

che bioccoso dipana il tuo camino

ch’è ormai spento,

lo squillo che s’è chiuso in un lamento

su chi è tornato a chiedere di te

alla tua porta,

la sferza delle lacrime frustranti

la casa bianca a metà colle

che svanisce

come il ricordo nella sera.


Di te forse mi rimane

questo fruscio d’acqua nelle foglie,

il veloce ticchettio sulle ardesie dei tetti,


e la pioggia che batte

come una preghiera

nel buio della tua finestra

che le tende abbassate.



DEDICA


Il tuo passo è qui, orma lieve

che si ripercuote nel ricordo.

Oggi conforta il mio silenzio

con una povera sigaretta

e qualche raro guizzo che mia ssale

di una voce lontana.

Una vecchia voce che trasale

sbigottita

se ad istanti riemerge dalla cenere.


È dolce confidarsi qualcosa

oggi che non si ha più nulla,

che si è soli fra i soli.


Confidarsi un amore perduto,

un tenue filo

di cui un capo forse

mi volevi affidare:

questo mi dicono i tuoi passo dispersi

quando battono lievi ancora

(la mano corre e fruga

una povera sigaretta,

l’ultima per sognare).


Poche cose bastano ora

alla mia tristezza:

la nonna che muore ogni giorno

(sul messaggio

mancava la sua firma),

una ragazza che forse

si chiamava Valeria;

cose brusche come la folgore,

si impennano improvvise,

vengono non chiamate.


Tu invece sei quando

si consuma la sigaretta

un ricordo che non si consuma

un’abitudine nuova

tutto il mondo di allora

le mie cravatte

i miei libri,

ora che non ho nulla

fuori che freddo e fame


o quando la vecchia voce

si umilia

e ritorna a inghiottirsi

nella cenere.

 

 

Gino Berbenni

 

 

 

 

NOTA

 

Archeologia Editoriale + Dalle Alpi allo Ionio (Geografia letetraria regioanle e paesana) sono miei invenzioni per la rivista-annuario TELLUS (1990-2009) che oggi proseguo su L'Olandese Volante. Gino Berbenni lo scoprii nel 2005, a Chiavenna, in casa del giornalista e direttore in pensione de L'Avanti e di ABC, Attilio Pandini. L'intento era, ed è, di mettere a disposizione dei lettori-navigatori autori e opere e pubblicazioni ormai introvabili e dimenticate. CDS