:: Dalle Alpi allo Ionio. Salvatore Farina a Lucca

 

CDS: "Salvatore Farina a Lucca sfarinato" - 2.1.2014 - Lucca Transmoderna

 

 

Dalle Alpi allo Ionio - a cura di Claudio Di Scalzo

Salvatore Farina

QUEL CHE MI DICONO LUCCA E I LUCCHESI

Avevo viaggiato tutta notte. Sceso a Pisa, non potendo cacciarmi nel letto d’un albergo vicino perché erano le tre battute e ribattute e dopo un’altra ora dovevo pigliare il treno Pisa-Firenze, mi buttai sopra un divano in sala d’aspetto. E non dormii. La luna, un lunone pieno, si affacciava ogni volta che un viaggiatore frettoloso spalancava un uscio per andarsi a buttare sopra un altro divano. Il gas, al paragone della luna, non faceva buona figura, quella mattina; la sua era una fiamma povera, che metteva ombre maggiori del vero dietro le gambe torte e tozze dei divani.

Alle quattro e mezza il treno era pronto, ed io entrai in vettura facendomi precedere dalla mia valigia, che in quell’ora di Pisa mi aveva servito di guanciale senza darmi nemmeno un pisolino.

Il breve tratto di via tra Pisa e Lucca posso dire d’averlo passato allo sportello del vagone, accompagnandomi col faccione tondo della luna piena, che dietro la vetrata sembrò fare il medesimo viag­gio con me.

E che sogni belli in quella mezz’oretta!

Lucca! gridò una voce sotto la tettoia. Io scesi subito, feci portare la valigia al deposito dei baga­gli e fui libero, armato solo d’un ombrello inutile. Mi guardai intorno. Dove non penetrava l’albore lunare, tutto era buio nelle cose intorno e nell’ani­ma mia. Quasi non conoscevo Lucca, che in quel momento era tutta per me.

In un giardino in faccia alla stazione si alzava un breve zampillo d’acqua; le case e le vie baciate dalla luna avevano sembianza di altre case e di al­tre vie, che già mi si erano aperte nel sogno.

– Da che parte si va? domandai al guar­dia-sala, ed egli sonnecchiando ancora mi doman­dò: - Per dove? – Per non sbagliare risposi:

Per il centro di Lucca. – A mancina... passi la Porta S. Pietro... incontrerà i gabellieri; prosegua nella via che si affaccia e tiri dritto, si troverà in Piazza Grande.

Io cosi feci. Rasentate le case d’un viale, eccomi a una porta trifora; due androni laterali stretti, devon servire ai pedoni; quello del mezzo è più ampio, servirà ai veicoli.

Ma non essendovi pedoni né carri a disputarmi il passo, io penetro in Lucca per la via più larga. Un gabelliere, che si scalda al focherello d’un bra­ciere, mi guarda appena. – Buon giorno, – dico io, ed egli ripete: – Buon giorno. – All’uscire dal­l’androne la luna che ha vegliato tutta notte con me mi è rimasta fedele e sembra aprirmi il passo per le vie mute della città. Per tutta un’ora non passa anima viva. Una volta sola (dopo aver interrogato un marmoreo Garibaldi solitario, che nel canto d’u­na gran piazza quasi mi pare non dovrà mai udire l’inno suo gridato da una gente che ora dorme) mi incontro in un mio simile, che non mi guarda nem­meno perché è tutto intento a frugare nella via ab­bandonata. Dico a me stesso che così pure frugo io; frugo nelle vie dell’anima, nei sentieri smarriti del ricordo; e quando nell’ombra vedo luccicare qual­che cosa, mi dimentico della luce del gas e della luna piena, e mi pare oro.

Le mie peregrinazioni mattutine mi portano in faccia a un’antichissima chiesa, che ha la facciata di ricco marmo. Saprò fra poco essere quella la cat­tedrale di S. Martino, che, sebbene ritoccata e riadorna più volte nei secoli, ancora ricorda il suo na­tale del mille. Questa cattedrale però non sorse nel tempo preciso che si temeva il finimondo, ma ses­sant’anni dopo; e certo sorse per i quattrini dei la­sciti di quei devoti, che di buon grado regalavano a Dio il loro bene terreno per accaparrarsi un bel posticino in paradiso.

La cattedrale, come tutte le altre chiese, come tutte le case di Lucca, è chiusa ancora. Fra po­co potrò vedere e toccare che l’interno è ricco dei quadri bellissimi di Niccolò da Pisa, del Passigna­no, dello Zuccari, del Tintoretto, di Gian Bologna, di Daniele da Volterra, di Fra Bartolomeo e di altri e altri che furono la gloria della pittura religiosa.

Poi lungamente mi arresto dinanzi alla ricca facciata costrutta nel 1188, restaurata nel 1442; e allo splendido campanile incrostato di marmi... Ma nessun portone di Lucca m’invita ancora; e il mio pensiero sta per perdersi ancora nelle remote vie del passato, quando finalmente si apre l’antica basilica di S. Frediano per la prima messa. Ed io vi penetro.

La basilica antica è del VII secolo; ha tre navate, e nel buio rotto appena da poche luci di candele, mi appar solenne. Questa solennità è cre­sciuta dall’antico battistero, antico così da risalire al tempo che i neonati eran fatti cristiani con l’im­mersione totale dei loro corpicini.

E appena S. Frediano mi ha lasciato, vedo Luc­ca aprire finalmente i suoi bar,in uno dei quali mi caccio per sorbire il caffè caldo.

Il più gradito spettacolo offertomi da Lucca è la sua aurora. La luna non tramonta, solo si oscura nel nuovo albore; il sole, non affacciato per anco, si apre la via col venticello fresco, che mi saluta all’u­scita dal bar.

Io me ne vo subito alle famose mura, le quali furono già poderosi baluardi della città, e ora son fatte un anello di passeggiate e di giardini che cin­ge tutta la città. Anello di ben sette chilometri, lun­go il quale mi sento colto da un’idea curiosa. Ed è questa: la fragilità delle umane cose mai non m’apparve con tanta evidenza come allo spettacolo di quelle mura paurose, che ogni tratto si ripiegano, rientrano quasi in se stesse per meglio celarsi, per meglio offendere; or ora da uno spiraglio nascosto agli assalitori, usciranno i difensori di Lucca asse­diata, a dar breve battaglia ai soldati obliosi, sgo­minandoli, trucidandoli; e altri archibusieri, ripa­rati dai merli delle mura, proteggeranno la loro ri­tirata.

Or quelle mura enormi sfideranno i secoli av­venire senza minacciare mai più anima viva; non difenderanno la città; solo, per sentieri fioriti, per viali d’ippocastani e di tigli, apriranno la via all’amore tranquillo da cui Lucca avrà lucchesini al­l’infinito. Oltre quelle mura o giardini già si ergo­no casette ridenti sparse per la bella campagna. Son l’opera dei così detti americani (lucchesi anco­ra) i quali tornati dal nuovo mondo dell’Argen­tina, del Paraguay, han voluto farsi un altro nido lucchese coi propri risparmi.

 

 

NOTA

Lo scrittore che oggi è ricordato soltanto perché destinatario di una breve lettera di Giovanni Verga premessa a L'amante di Gramigna in Vita dei campi, fu uno scrittore di grande talento per i ragazzi come si diceva allora. Il suo Libro dei paesi incantati fu a lungo un successo editoriale, e da questo ripubblichiamo, per Dalle Alpi allo Ionio, il suo sguardo su Lucca. CDS