:: Renato Fucini: L'oriolo - Dalle Alpi allo Ionio

 
 
 
 
 
 
DALLE ALPI ALLO IONIO
 
Renato Fucini
 
L'Oriolo
 
 
 I tre soliti scoppi di frusta convenzionali dati dal braccio robusto di Fiore si fecero finalmente sentire; la vecchia e fida Gigia si mise al galoppo scotendo allegra la groppa umida e fumante; Fiore sbadigliò pensando alla cena, e il sor Pasquale, levando per un momento la destra, che il freddo gli aveva intorpidita, dall'involto che gelosamente si teneva sulle ginocchia, s'asciugò con un moto rapido il naso, e con altrettanta rapidità la rimise al posto, brontolando un «Oh!» di compiacenza che voleva dire: «Finalmente siamo arrivati!».

In quello stesso momento, alla quiete ordinaria che aveva regnato dalle ventiquattro in poi nella casa del sor Pasquale, successe un movimento rumoroso: i ragazzi cominciarono a strillare, Toppa s'avviò latrando incontro al calesse del padrone e la sora Flaminia corse in cucina a buttar giù ogni cosa. Buttò giù nella pentola i taglierini fatti in casa colle sue proprie mani; buttò giù nel paiolo che brontolava da un pezzo il cavol fiore còlto nel suo campicello della fonte; buttò in padella quattro manate di bròccioli saltellanti, pescati la mattina da' suoi ragazzi; buttò giù quella po' di dose di malumore che aveva messa insieme nel veder passata d'una quarantina di minuti l'ora solita del ritorno del suo marito dal mercato di Cutigliano, e attese seriamente a dare l'ultima mano alla sua faccenda prediletta.

Cinque minuti dopo la Gigia, che fu tirata subito in rimessa per non lasciarla così sudata alla brezza tagliente della montagna, rispondeva soffiando e dimenando gli orecchi alle sgarbate carezze dei monelli di casa e alle linguate di Toppa, che non era tanto per saltare addosso al padrone, a Fiore e al muso della cavalla.

Ma quella sera, o almeno in quel momento, il sor Pasquale non voleva carezze né dai figlioli né dal cane. Domandò che ore erano, brontolò una buona sera a' suoi ragazzi, dette un'ombrellata a Toppa e corse subito in camera col suo misterioso fagotto.

La sora Flaminia, che lo aspettava a stirizzirsi alla fiammata del fritto, restò sorpresa di non vederlo comparire in cucina; ma pensando che fosse andato subito a levarsi da dosso i panni fradici, continuò a soffiare nel fuoco e a tirare avanti la cena, che in quel giorno, come in tutti gli altri di mercato, diventava un vero e proprio desinare.

«Lo lascino stare stasera il babbo», disse Fiore ai ragazzi mentre faceva il letto alla Gigia; «lo lascino stare perché stasera non è serata.»

«O che ha? o che ha?»

«Che sappia io, nulla; ma mi pare che abbia de' pensieri e dimolti.»

«Che t'ha gridato per la strada?»

«No, gridato no; ma tutte le volte che aprivo bocca mi dava del bestione per nulla. Io l'ho lasciato sempre dire, perché tanto lo so che è fatto a quella maniera: ma mi c'è voluta tutta la mi' pazienza! Si figurino che m'ha avuto a mangiare perché gli ho detto che l'oriolo vecchio di cima scala me lo giocherei con mezzo mondo.»

E lui a dirmi che ero un bestione! e io a dirgli che in ventiquattr'anni che sono nella su' casa non l'ho ma' visto né dal maniscalco né fare un minuto... O non l'ha detto tante volte anche lui? Ma stasera, no! E lì a dire che non era vero nulla; e io a lasciarlo dire. E lì brontola, e lì brontola!... O che lo so che abbia in corpo stasera? Cecchino si fermi, lasci stare la cavalla! eppure l'altro giorno... se n'avrebbe a rammentare!... Natale, codesto povero cane! Ecco! o se gli desse un morso, o che non gli starebbe bene?... Ahi! no, Peppe, colla frusta poi s'ha a fermare... ahi, perdio!

«Ragazzi! Pasquale!»

«Sentono? la padrona li chiama a cena. Via, via, si levino un po' di torno.»

«Pasquale! ragazzi! a tavola!», ripeté la sora Flaminia.

«Accidenti ai ragazzi!», disse Fiore fra i denti, e rimettendo al suo beccatello la frusta, la fece vedere a Toppa, che, capìta l'antifona, corse di galoppo in casa colla coda fra le gambe.

Per liberare le tre eterne vittime di quelle quattro forche di figlioli, non ci voleva altro. Corsero tutti in salotto scapaccionandosi, e si piantarono a tavola tirando su col naso e preparati alla solita osservazione, appena fosse scodellata la minestra: «Così poca?».

Rimasero meravigliati di non vedere ancora scodellato; si guardarono fra loro, tossirono, shignazzarono, s'asciugarono coi tovaglioli la bocca e tutto il resto, e dimenandosi sulle seggiole, domandarono tutti insieme: «O babbo?».

La sora Flaminia intanto, col cucchiaione in una mano e la prima scodella nell'altra, aspettava guardando la porta dalla quale doveva comparire il marito.

Era quasi un par di minuti che la zuppiera mandava la sua nuvola di fumo appetitoso ad investire il lume a petrolio attaccato al palco sul mezzo della tavola, quando compare Fiore nella stanza, e appena entrato:

«O il padrone?», domandò.

«Ma dove s'è cacciato? che fà? Signore Dio!», domandò impazientemente Flaminia. «Dategli una voce, via, Fiore; mi pare di sentirlo su nello scrittoio.»

«Sissignora; senta! è su che armeggia. Pare che metta delle bullette.... chi lo sa?»

«Sì, sì. Andatelo a chiamare e ditegli che io intanto scodello, perché se no, questi taglierini mi diventano un pastone.»

Il sor Pasquale in quel momento era felice. S'era già alleggerito del misterioso fagotto che con tante pene aveva portato intatto attraverso al freddo e al nevischio per quattordici miglia di montagna, ed ora, prima di scendere a mangiare, contemplava attaccato a una parete del suo scrittoio un ordinarissimo oriolo col cucùlo, che gli era stato appiccicato da un imbroglione qualunque come un oggetto d'una rarità favolosa. E pregustando le gioie della sorpresa che preparava ai suoi ragazzi, ai montanini dei dintorni, al parroco e alla sora Flaminia, la quale in quel momento pensava che il suo marito doveva avere per la testa qualcuna delle sue solite grullerie, e pregustando, come dicevo, le gioie di tale sorpresa, dimenticò perfino il malumore che gli avevano messo addosso alcune persone incontrate in un caffè, le quali glielo chiamarono girarrosto, stimandogli dodici lire quell'oriolo che lui aveva pagato quarantacinque, credendolo una bazza.

«Eccomi, eccomi, Fiore; vengo subito», rispose amorosamente al servitore che lo chiamava, e allegro come quella pasqua dalla quale aveva preso il nome, tutto inzaccherato e con gli stivali motosi sempre in piedi, scese in mezzo alla sua famiglia.

Nel movimento d'allegrezza che si manifestò nei ragazzi alla vista del babbo, che in quel momento significava «mangiare», un bicchiere schizzò, dopo avere empito di vino la tovaglia, a stritolarsi in mezzo alla stanza, accompagnato da una sonora risata del sor Pasquale, che due sere innanzi, alla stessa ora precisa, s'era mezzo slogato il pollice della mano destra a scapaccionare Cecchino per un caso simile.

La sora Flaminia allora sempre più si persuase che Pasquale doveva averla fatta grossa. Pensa tu, - per dire come pensò lei, - pensa tu che razza di lavativo gli hanno appiccicato questa volta!

E i timori della sora Flaminia erano anche troppo giustificati, perché dai tre mercati ai quali era stato in quell'anno, non era mai tornato colle mani vuote. La prima volta tornò con una dozzina di pezzuole di seta tutte di cotone; la seconda. con la Bibbia del Diodati per il priore che gli aveva ordinato quella del Martini: la terza, con un par di calzoni bell'e fatti di casimirra inglese di Prato, che quando se li provò gli arrivavano a mezza polpa.

«E questa volta? Dio me la mandi bona!», pensò la sora Flaminia; e guardò pietosamente le pillacchere di Pasquale, che ingozzava rumoroso la minestra ridendo da sè sotto i baffi.

«Dio me la mandi bona!», e in tempo che raffreddava, soffiandovi, la prima cucchiaiata:

«Dimmi», domandò a Pasquale che guardava il suo oriolo da tasca, «o quello delle castagne l'hai veduto?»

«Chi?... Ah!! zitta, zitta, via!», rispose Pasquale indispettito. «Guarda con che mi viene fòra ora!»

«O non sei andato apposta al mercato?»

«Fiore!», chiamò il sor Pasquale. «Fiore!» E rispondendo alla moglie:

«Sì, hai ragione; ma credo che l'abbia visto Fiore... Fiore!».

«Comandi sor padrone...»

«Ditemi, Fiore, che ci avete parlato voi con Luc'Antonio?»

«Nossignore; siccome lei signoria m'aveva detto che ci voleva parlar da sé...»

«Ma poi non v'avevo anche detto?...»

«Sissignore, che se lo vedevo l'avessi mandato da lei all'appalto, come di fatti alle dieci precise...»

«Non ce l'avete mandato!»

«Sissignore che ce l'ho mandato! ma gli hanno detto che lei...»

«Avete ragione, sì, avete ragione! Con tanti affari per la testa... Ma che ce n'avevo una stamani? Ci avevo da veder Luc'Antonio... ci avevo... ci avevo da veder Luc'Antonio, eppoi ci avevo... insomma ce n'avevo tante che questa m'è passata di mente. 'Gnamo, 'gnamo, finiamola con queste seccature! guardate se questo è il momento!... Andate, andate, Fiore, e fate chetare quell'accidente di cane, se no vengo di là e lo stronco. O a chi abbaia?»

«C'è il contadin novo...»

«Ah! ditegli che stia zitto anche lui.»

La signora Flaminia stava zitta e non alzava il capo dalla scodella.

«Andate, andate», disse poi anch'essa a Fiore; «con Luc'Antonio ci ho parlato io. Ho mandato Cecco sulla via maestra a aspettarlo, e l'ho fatto venir qui.» Poi cavandosi un foglio di seno e mostrandolo al marito: «Tieni», disse; «il fattore delle monache t'ha rimandato questa ricevuta perché tu ci faccia la data che ci manca».

Il sor Pasquale rimase sconfitto. Guardò la moglie, guardò la ricevuta, adagio adagio rimise in tasca l'oriolo, poi, con un movimento brusco, si rinsaccò nelle spalle, non sapendo come giustificarsi, e ripeté a tutti che stessero zitti mentre nessuno fiatava.

L'ora solenne, intanto, s'avvicinava a gran passi.

Il sor Pasquale, dopo aver attaccato l'oriolo alla parete dello scrittoio, proprio di faccia alla sua poltrona, l'aveva rimesso col suo da tasca già regolato scrupolosamente al mezzogiorno di quello di Cutigliano, e fra due minuti doveva sonare le sei; fra due minuti la sua famiglia avrebbe goduto della cara sorpresa, e la sua vittoria contro gli eterni dubbi, contro il tormentoso malumore di sua moglie sarebbe stata completa.

Voleva star fermo sulla sedia, e non gli riusciva: avrebbe voluto mangiare e bere indifferentemente, e non poteva: tantoché una volta si mise in bocca un tappo di sughero sbagliandolo col pane; e un'altra, vuotò l'ampolla dell'aceto nel bicchiere di Cecchino, credendo di mescergli il vermutte. Avrebbe voluto anche stare zitto, e questa era la cosa più importante, ma anche quello non gli riuscì, e:

«Ragazzi, ci manca poco!», disse non potendo più reggere! «Ci manca poco!» e dette un sogghigno e rimpiattò furbescamente la testa fra le spalle e il petto, come uno spinoso al quale si tocchi la groppa. «Ci manca poco!»

«A che? a che?», domandarono tutti strillando, credendosi autorizzati da quella confidenza paterna a fare un baccano del diavolo. «A che? a che?»

«A nulla!», rispose desolatamente Pasquale mortificato da un sospiro della moglie, più sonoro di tutti gli altri.

«A nulla!», disse un'altra volta il sor Pasquale; quando, cavato fuori l'oriolo sotto la tavola, sentì rintuzzarsi il dolore che gli era costato quel sospiro, nel vedere che mancava soltanto un mezzo minuto alle sei, e:

«Ora poi, zitti davvero!», disse con voce tremante; buttò sotto la tavola un pezzo di lesso per chetare Toppa che mugolava e con una mano alzata e guardando in estasi la sora Flaminia, che mangiava distratta e più seria di prima, rimase ad aspettare.

Che tempesta di pensieri deve aver attraversato la testa di lui in quel mezzo minuto! Cambiò due volte colore, sorrise, aggrottò le ciglia spaurito come se guardasse in un precipizio, gli occhi gli si inumidirono di tenerezza, poi tornò cupo un'altra volta; tratteneva il respiro, ma il core gli si vedeva battere sotto il corpetto di pelle d'agnello, quando ad un tratto mandò un urlo roco, i ragazzi strillarono come anime dannate. Toppa cominciò ad abbaiare disperatamente, ma fu subito chetato dagli scarponi del signor Pasquale, e il cuculo mandò a breve intervallo tondo e sonoro, il suo secondo <I>cuccù</I> in mezzo al silenzio generale; eppoi mandò il terzo, e il sor Pasquale arrantolò un «Ah!» di ruvida gioia verso la moglie; e il cuculo, continuando, mandò il suo quarto lamento, eppoi... rimase lì.

L'oriolo di cima scala, puntuale, suonò in quel momento le sei.

La sora Flaminia guardò Pasquale, e nel vederne tanto grottescamente stralunata la faccia, non si poté più contenere e scoppiò in una larga risata che per un mezzo minuto almeno, buttatasi indietro a braccia aperte sulla spalliera della seggiola, rimase con la sua fresca bocca spalancata, ripigliando a stento respiro.

Il sor Pasquale era rimasto come fulminato. I ragazzi avrebbero voluto fare allegria, ma un'occhiata della madre, aiutata da un certo senso di paura che, a quel rumore nuovo che veniva di su d'accanto alla camera dove era morto lo zio Nastasio, era entrato nelle loro teste già riquadrate dalle novelle di quella vecchia che veniva prima a fare il burro, bastò a tenerli al posto.

La sora Flaminia, intanto, dopo aver cantato l'inno alla sua vittoria con quella omerica risata, si trovò a sua volta sconfitta ad un tratto dal dolore del suo Pasquale, che cogli occhi ammammolati guardava stupefatto ora i figli, ora la moglie, senza poter pronunziar parola che accusasse il suo profondo turbamento.

Fiore interruppe quel silenzio doloroso comparendo sulla porta a domandare a bassa voce, tutto spaurito:

«Hanno sentito nulla loro? O che è stato».

«Fiore, accendetemi un lume», disse il sor Pasquale, facendo un movimento come per alzarsi: ma la sora Flaminia lo prevenne, si alzò, e amorosamente gli disse: «Dove vuoi andare? sei stracco; vado io». E preso un lume s'avviò allo scrittoio.

Passarono pochi momenti, alla fine dei quali, avendo la signora Flaminia rimediato allo sbaglio che Pasquale aveva commesso nella furia rimettendo l'oriolo, il cucùlo cantò allegramente le sei.

Il sor Pasquale allora dette la via a tutto il suo buonumore. Mangiò pochissimo, sorrise alla moglie, accarezzò i figlioli, fece prendere una mezza indigestione a Cecchino che gli stava accanto, empiendogli continuamente il piatto e il bicchiere; e lo stesso Toppa, incalorito dagli ossi del lesso e dalle lische dei bròccioli che il sor Pasquale gli dette e gli fece dare, insudiciò nella nottata anche il salotto bono, e stette tutto il giorno dipoi nell'orto a mangiare il palèo che scaturiva di sotto la neve.

Il contadin novo, che era venuto per parlare di stime morte, fu fatto passare in salotto, e anche con lui il sor Pasquale si sfogò quando poté. Lo chiamò sempre galantuomo, lo prese tre o quattro volte per il ganascino, gli dette da bere, e poi gli parlò un po' di tutto: di politica, d'orioli, di storia, di geografia e del lunario novo; gli disse che le stelle eran mondi come il nostro, che dentro la terra c'è una fornace di foco come in una carbonaia, e tante altre cose, con molto disordine, ma con senno abbastanza; e soltanto perdeva la bussola quando il contadino gli entrava nelle stime morte E allora, giù attraverso, mescolava stime morte e cucùli vivi, e stime vive e cucùli morti, e durò finché i ragazzi, che avevan cominciato a cascare addormentati per le seggiole e sulla tavola, non furono uno dopo l'altro raccattati tutti, come feriti sul campo di battaglia, da Fiore e dalla sora Flaminia, che li portarono a letto.

Allora il sor Pasquale si chetò; licenziò il contadino, soffiò il lume della tavola, e, presa la sua lucernina, s'avviò soddisfatto e rosso com'un pomodoro verso la sua camera, dove la sora Flaminia l'aspettava per vedere se almeno fosse stato possibile cavargli di sotto quanto l'aveva pagato.

 

Come son volati gli anni! e come tutto è cambiato anche in quella famiglia di buoni campagnoli! Belli quei giorni per il sor Pasquale! Che gioie sconfinate erano per lui quando dal suo scrittoio, dove stava chiòtto chiòtto ad ascoltare, sentiva i contadini aggruppati sul prato discorrere del suo oriolo d'autore e della somma favolosa che doveva essergli costato e della impossibilità di trovare il compagno, perché quello doveva esser venuto dicerto dall'Americhe di là dal mare. E che risate di core, quando sentiva gli uomini far la baiata alle donne e ai bambini che ad ogni canto del cucùlo correvano a rimpiattarsi dietro al faggio della burraia tappandosi gli orecchi colle dita! Che carnevale fu quello per lui! Ma quando lo vide per la prima volta il priore! O quando lo fece vedere al cappellano che ebbe paura? O il sindaco che non ci voleva credere? Ma quel prato, che cos'era quel prato le domeniche dopo le funzioni! Bisogna essercisi ritrovati, via, se no, è inutile ragionarne.

Ed ora su quel prato un mucchio di passerotti beccuzzano fra l'erba e si leticano tranquillamente, perché da quella casa non parte nessun rumore che possa disturbarli.

Gli anni volano! Ne sono già passati quindici da quella sera che fu tanto procellosa per l'animo del buon Pasquale, e tutto è cambiato anche in quella casa di allegra e buona gente! I due figli mezzani, Natale e Gosto, sono morti: Peppe è segretario in un lontano comunello della Garfagnana, e non rimane in casa che Cecchino, ora giovinotto di ventidue anni, destinato a continuare nell'amministrazione del piccolo patrimonio.

E anche il povero Toppa non è più! Morì di vecchiaia cinque anni sono, ed ora si riposa sotto al ciliegio vìsciolo delle ghiacciaie, dove Fiore lo sotterrò pietosamente, pensando che per due anni almeno lì non ci sarebbe stato bisogno di pecorino. Ogni cosa è cambiata! Fiore è incanutito, la vecchia Gigia l'ebbe un barrocciaio di Pracchia, e non se n'è saputo più nulla; la sora Flaminia ha perso quasi tutti que' bei denti bianchi che metteva fuori fino agli ultimi quando rideva di core e il sor Pasquale è su a letto malato: oggi sta un po' meglio, ma è malato gravemente.

La sua forte costituzione, che pareva dovesse condurlo senza difficoltà oltre la settantina, restò profondamente scossa alla morte del primo figliolo, ma per allora il colpo più forte lo risentì nel morale, poiché si fece malinconico e taciturno al punto che solamente un giorno o due della settimana usciva di casa, standosene tutti gli altri, tranne poche ore, ritirato nel suo scrittoio a leggere e a pensare. Alla morte del secondo, poi, si ammalò. Passò fra letto e poltrona qualche mese, e dopo non fu più lui.

Nella sua mente, insieme con gli altri generi di turbamento, era entrata una specie di fissazione, per una di quelle strane combinazioni che si crederebbero opera soprannaturale, se il caso non ce ne fornisse esempi continui.

Fosse il tonfo di un uscio sbatacchiato, fosse una dimenticanza di caricarlo o qualunque altra malaugurata accidentalità, il fatto si è che il suo impareggiabile oriolo col cucùlo che, sia detto fra parentesi, era riuscito una perla, in due anni si fermò due volte, e quelle due volte erano state appunto alla morte del primo ed a quella dell'altro figliolo.

«Quando si fermerà un'altra volta, tocca a me!», diceva sospirando il povero sor Pasquale tutte le sere, mentre lo caricava prima d'andarsene a letto. «Quest'altra volta tocca a me!» E lo diceva con tanta convinzione che nessuno fu buono di levargli dal capo quel pregiudizio che a poco a poco diventò una vera fissazione che finì di rovinare affatto la sua indebolita salute.

La primavera era inoltrata, e colle prime tepide brezze del maggio quella oppressione di respiro che lo tormentava, si aggravò tanto, che il medico credé suo debito dire alla sora Flaminia che pensasse a parlarne col parroco; e la sora Flaminia mandò un sospiro e disse che l'avrebbe fatto. Ma la misura era presso a poco inutile, perché il taciturno don Silvio, già da un paio di settimane, passava quasi intere le giornate a capo del letto del suo vecchio amico, tenendogli affettuosa compagnia quando quelli di casa dovevano allontanarsi per le loro faccende.

«Ma che oriolo, don Silvio!», osservò un mattina Pasquale dopo che da diverse ore, oppresso dall'affanno, non aveva aperto bocca. «Che oriolino è stato quello! Ha sentito le dieci? guardi a cotesto costì della piletta.»

«Son le dieci precise», rispose don Silvio.

«Ha capito?! Oggi finiscono venti giorni che lo rimessi quando m'alzai e non ha fatto un minuto; ma quando si fermerà...»

Don Silvio lo pregò di stare zitto, e con una scusa si allontanò tutto contento in cerca della sora Flaminia che era scesa a scaldargli una tazza di brodo, per dirle che Pasquale aveva discorso tanto e che proprio stava veramente benino. E ritornò su dietro di lei che, entrando in camera con la tazza, accennò subito sorridendo al marito che non parlasse. Lo trovò infatti che stava un po' meglio; se non che un'ora dopo Fiore correva ansante a chiamare il medico per il padrone che da un momento all'altro aveva fatto un peggioramento da mettere in pensiero.

Quando entrò il medico, Pasquale gli sorrise e gli disse: «Mi rincresce per lei, povero sor dottore, che l'hanno fatto scomodare...». Eppoi, rivolgendosi alla moglie e a Cecchino: «Voi altri badate che non resti scarico e non abbiate paura di nulla...». E rivoltosi di nuovo al medico: «Che mi farebbe male quell'uscio e quella finestra aperta?».

«Anzi...», rispose il medico.

E Cecco e la sora Flaminia corsero subito a spalancare ogni cosa, e alla folata di maestrale che inondò la camera, Pasquale mandò un sospiro di contentezza e disse: «Ah! come mi fa bene!».

I boscaioli cantavano nella faggeta; il medico e il priore si misero alla finestra a contemplare silenziosi l'orizzonte che di là si stendeva immenso sulla pianura lontana.

Dopo qualche momento, il priore, sentendo sonare il mezzogiorno alla sua parrocchia, si ricordò del desinare, si staccò dalla finestra andando verso Pasquale per congedarsi, e lo vide con gli occhi fuori dell'orbita che, senza articolar parola, ma indicando di voler parlare, stendeva un braccio tremante verso il suo oriolo da tasca appeso a capo del letto.

Corsero là tutti, intesero, staccarono l'oriolo dal muro e glielo mostrarono. Il sor Pasquale si alzò a sedere sul letto, ci ficcò sopra gli occhi e cadde giù spossato balbettando: «Anche l'ora di Pasquale è sonata... è sonata... è sonata!».

Erano le dodici e due minuti; l'oriolo di cima scala le aveva sonate, e il cucùlo era rimasto in silenzio!

La sera dipoi, quando la campana della parrocchia sonava alle forre della montagna l'Ave Maria della sera, il sole mandò i suoi ultimi raggi a riflettersi sulle fronti aduste e madide di sudore di un gruppo di boscaioli che, inginocchiati sui tronchi de' faggi abbattuti, accanto alle loro scuri luccicanti, dicevano il primo De Profundis all'anima benedetta del povero sor Pasquale.