Rainer Maria Rilke
LA CANZONE DELL'ALFIERE CRISTOFORO RILKE
Cavalcare, cavalcare, cavalcare.
Tutto il giorno, anche la notte e il giorno dopo ancora. Cavalcare, cavalcare, cavalcare.
Il cuore è oppresso e smisurata la nostalgia!
Non un profilo di un monte. Non un albero. Niente che si elevi
a mezz’aria. Capanne straniere appiattite, tese verso sorgenti inaridite. Non una torre... e il paesaggio uguale sempre...
Due occhi? Ma per vedere che cosa?
Soltanto la notte ci si illude di conoscere la via... forse... Oppure si rifà la sera il percorso conquistato di giorno con dura fatica in questa terra straniera? Chissà...
Cocenti sono i raggi del sole.
Da noi è così nel pieno di agosto. Ma non era già il colmo dell’estate quando partimmo?
Le vesti smaglianti delle donne tra il verde
nel momento dell'addio...
Tutto è così lontano...
È tanto tempo che cavalchiamo. Sarà già autunno. Per lo meno laggiù dove le donne col cuore oppresso pensano a noi.
Diritto in sella il signore di Làngenau si avvicina e sussurra:
«Signor marchese... ».
Per tre giorni interi ha ciarlato ridendo il marchese: un delicato sottile cavaliere venuto di Francia. Ora è come staccato, lontano. Un bimbo svegliato dal sonno.
La polvere si adagia opaca sul bianco colletto di trina.
Ecco il signor di Làngenau sorride ancora e continua: «Strani occhi avete marchese. Somigliate, ne sono certo, alla mamma».
Il delicato marchese si risolleva...
Un attimo. È rinato...
Tra le file si parla della madre lontana.
Un cavaliere tedesco scandisce chiare
e forti le sue parole...
Ascoltano tutti. Ed anche chi non conosce
la lingua tedesca ora comprende. Anche
se intende solo qualche parola. «Sera...
bambino... ». Eccoli questi cavalieri uniti
e d'accordo, e vengono dalla Francia,
dalla Borgogna, dai Paesi Bassi,
dalle valli della Carinzia, dai castelli
della Boemia, dai paesi di Leopoldo
imperatore. Quello che uno racconta,
gli altri lo hanno sempre saputo. E sempre
con le stesse parole. Come se al mondo
non vi fosse che una madre sola, per tutti.
Cavalcano così, immersi nell'ombra della sera.
Una sera che non ha volto. Poi tutti tacciono.
Ma ognuno sì porta nel cuore le chiare parole
Consolatrici.
Notte. Fuochi di bivacco. Seduti intorno si aspetta
che qualcuno canti. Pesa su tutti la stanchezza.
A tratti gli occhi del delicato marchese brillano
di strana luce. Si è chinato furtivo a baciare una rosa,
poi l'ha riposta di nuovo sul cuore. Il signore
di Làngenau l'ha osservato perché non può prender sonno
e pensa: «Sul mio cuore non posa neppure una piccola rosa».
Poi canta con nostalgia un'antica canzone della patria lontana
che le fanciulle intonano quando cadono falciate le messi.
Il delicato marchese chiede: «Siete molto giovane signore?». Il signore di Làngenau un po’ lieto un po’ triste: «Diciottenne». Silenzio. Più tardi, chiede ancora il marchese: «Vi aspetta in patria una sposa?». «E voi?» replica il signore di Làngenau.
«Così, come i vostri, sono d'oro i suoi capelli». Ancora silenzio. Poi con impeto il signore di Làngenau: «Perché allora cavalcate per terre straniere e insidiose incontro a quei cani infedeli?».
Il marchese sorride: «Per ritornare».
Passa un’ombra sul volto del signore di Làngenau. Lo rattrista il ricordo di una bionda fanciulla compagna di giochi selvaggi. Oh, in patria poter ritornare! Un istante soltanto per dire: «Magda, perdona se fui sempre così... ». «Fui?» si chiede. E sono di nuovo lontani.
Un giorno, all'alba, ecco un cavaliere...
Un altro. Quattro, dieci, migliaia. Tutti
serrati nel ferro. L'esercito.
È arrivato il momento del commiato.
«Buon ritorno in patria, Marchese!».
«Vi protegga la Vergine, cavaliere!».
Ma non possono separarsi. Sono amici.
Fratelli. Hanno ancora tanto da dirsi, ora
che sanno già tanto uno dell'altro.
Indugiano un poco e intorno vi è un gran
scalpitar di cavalli.
Ed ecco il marchese si sfila il lungo guanto
e furtivo afferra la piccola rosa.
Ne stacca un petalo solo e lo porge
come fosse una santa reliquia.
«Vegli su di voi questo talismano!».
Pensoso il signore di Làngenau guarda
a lungo il compagno ora lontano. Nasconde
la reliquia nella corazza di ferro.
Batte il cuore nel petto e con esso palpita
il petalo di rosa.
Squilla una tromba. Bisogna rientrare
nei ranghi. Un triste sorriso aleggia
nel volto del signore di Làngenau.
Una donna, straniera, sta vegliando su lui.
Davanti a Spork, finalmente.
Il grande condottiero sta ritto sul bianco cavallo. I suoi lunghi capelli hanno bagliori di acciaio.
Il signore di Làngenau non l'ha chiesto a nessuno, riconosce il condottiero all’aspetto.
Balza giù da cavallo. Si inchina. Densa è la polvere intorno. Porge il plico.
«Leggi!». Comanda il generale. Non ha neppure dischiuso le labbra. Non serve. Sanno ordinare soltanto. Al resto basta la destra sollevata al comando.
Il signore di Làngenau ha finito da un pezzo. Dimentica tutto. Spork, solo Spork. E sopra è svanito anche il cielo.
Ora Spork, un gran condottiero, pronuncia solo tre sillabe. «Alfiere». Ed è tutto.
Le schiere sono al di là della Raab, all'addiaccio.
Il signore di Làngenau solo galoppa verso il fiume per raggiungerle.
È sera. Pianura.
Tra la polvere laggiù lontano brillano le fibbie e gli stemmi dorati.
Spunta la luna e tra le mani si insinua il chiarore.
Il signore di Làngenau è intento a scrivere. Lento con lettere grandi
dritte e precise quasi dipingesse.
«Mamma mia buona siate superba: alfiere io sono.
Mamma mia buona siate tranquilla: alfiere io sono.
Vogliatemi bene: alfiere io sono».
Poi ripone la lettera sotto la corazza di ferro vicino al petalo di rosa.
«Forse profumerà ogni riga» pensa. «Forse un giorno, chissà?,
la troveranno!». «Non è lontano il nemico».
Ora gli zoccoli calpestano il corpo
di un contadino scannato. Ha gli occhi
sbarrati. Qualcosa si riflette in essi
ma non è il cielo. Più avanti ululano
dei cani. Ed ecco un villaggio. Si eleva
sopra i tuguri, tutto di pietra, il castello.
Il ponte è grande... invitante. A chi
si avvicina sembra sempre più enorme
la porta. Poi alti squilli di corni...
un benvenuto. Nel cortile clamori,
risuonar di ferri, abbaiar di mastini,
nitriti e scalpitar di cavalli.
Riposare finalmente in mezzo agli ospiti.
Non dover procacciarsi il cibo
con le proprie mani e con animo ostile.
Poter lasciare scorrere la vita così...
Tutto questo è bene. L'animo a volte
ha bisogno di adagiarsi e avvolgersi
in un bozzolo di seta.
Non esser sempre soldati.
Poter sciogliere i capelli liberi sulle spalle
e avere sul collo solo morbide trine...
Adagiarsi su cuscini di seta….
E le donne... Come tanto tempo prima...
Dolci le loro mani, come un canto
il loro sorriso. Mentre i paggi
dalle chiome dorate portano frutta
succose su splendidi vasi.
Ecco è una festa. Guizzare
di fiamme, fruscii di sete e di voci...
Lasciarsi cullare...
Ed ecco il tempo trapassa, si perde
nel sogno tra bagliori rossi di vino
e profumati petali di rose.
Tra tanti uno solo col cuore in tumulto
attende in disparte il risveglio dal sogno.
Perché solo nel sogno vi è tanta vertigine
di gale e di donne.
Ma ecco quello vestito di seta bianca
comprende: non può svegliarsi. È già
desto, non solo, una trama di vero
lo avvolge. Allora tremante fugge
nel sogno. Là, solo, nel parco oscuro.
La festa è lontana. Sono false le luci.
Vera è solo la notte e lo stringe.
Un alito fresco è sopra di lui.
Chiede alla donna: «Sei tu la notte?».
Lei sorride e lui si vergogna
dell'abito bianco di seta. Vorrebbe
esser lontano e tutto vestito di ferro.
Armato dalla nuca giù fino al piede.
La contessa sorride.
«Tremi di freddo?
Oppure è la nostalgia?».
No! Trema solo perché gli è caduto
di dosso improvviso il manto
dolce e misterioso della sua fanciullezza.
Chi glielo ha tolto?
«Forse sei tu?... ».
Ecco, ora non ha più nulla.
È nudo, terso e sottile.
Pian piano si spegne il castello. Un peso è calato
su tutti... Là in alto sotto la torre è buio profondo.
Ma luminosi brillano i sorrisi e le mani protese
si cercano e si ritrovano. Si stringono insieme
come bambini impauriti dal buio. Ma non è paura.
Non temono nulla. Passato, futuro... il tempo
è sepolto ed essi rinascono adesso.
Fusi insieme in un essere nuovo.
Nell'atrio su di una panca c'è l'armatura,
la bandoliera e il mantello del signore di Làngenau.
I guanti per terra. Appoggiata diritta contro la finestra
la bandiera. Slanciata e funerea. Fuori imperversa
la bufera. Straccia la notte in brandelli vividi e neri.
La luna risplende a lungo spettrale. Nell'ombra freme
la bandiera e sogna... È già penetrata nel castello
la tempesta? Porte sbattute? Calpestii per le scale?
Nulla. Che importa. Lassù nella torre non giunge nulla.
Dietro cento porte sbarrate stanno due creature
in questo gran sonno che insieme lì avvolge.
Uniti così come dentro un'unica madre o una tomba.
Chiarore di un giorno che sorge? Così grande è, questo sole? Piena è l'aria di gorgheggi. Luminoso è l'intero
universo, ma non è l'aurora. Nessun canto di uccelli. Avvampano in fiamme
le travi. Stridono rosse di fuoco le finestre.
E dietro le fiaccole ardenti il nemico è là fuori immerso nella notte.
«Al fuoco, al fuoco». Con ancora le palpebre gonfie di sonno
tutti si ammassano. Tra le porte e le sale giù per le scale
vestiti di ferro a metà. I corni risuonano rauchi per tutto il castello.
«All'armi, all’armi».
Rullano sordi i tamburi. «La bandiera, dov'è la bandiera?». Rimbalzano voci: «L'alfiere?». Stridori di ferro. Ordini.
Disposizioni. Silenzio. «Dov'è l'alfiere?». Poi fuori
al galoppo. Ma davanti alle schiere la bandiera non c'è.
Un turbine in mezzo alle fiamme precipita
giù per le scale. Lambite le carni dal fuoco.
Eccolo è fuori dal pazzo castello.
Quasi esangue donna ha tra le braccia la bandiera.
D'un balzo è in sella al cavallo.
Come un urlo che giunge
sovrasta e poi va, così è
già in testa alle schiere.
Ed ecco il vessillo davanti
nell'aria. Lo vedono tutti.
È là davanti. E ognuno
saluta l'alfiere splendente
col capo scoperto... senz'elmo.
Improvviso un guizzo
di fiamma balena e dilaga.
In mezzo al nemico palpita
e avvampa. E dietro lo seguono
le schiere quasi in gara.
Il signore di Làngenau è in mezzo al nemico.
La calca si è rotta sgomenta. Ed egli è là dritto
nel centro sotto l'insegna che lenta in cenere
si consuma. Vagano gli occhi persi in un sogno.
Ben strani variopinti miraggi! «Giardini»
pensa e sorride. Lo trapassano e lo arrestano
pupille di fuoco. Volti umani.
Volti di cani infedeli. Sprona su loro il cavallo.
Alle sue spalle il cerchio nemico si chiude.
Giardini ancora... E sopra di lui quasi lampi
di fulgido argento le scimitarre ricurve.
Acque che scorrono ridenti dai petali di una fontana.
Dentro al castello una vampata ha consumato una casacca,
una lettera e un petalo di rosa: amuleto di una donna straniera...
La primavera quell'anno arrivò fredda e triste.
Un messaggero del barone di Pirovano cavalcando lentamente giunse al feudo dei Rilke, a Làngenau. E là vide
piangere una donna
dai capelli bianchi.
NOTICINA
La canzone dell'alfiere Cristoforo Rilke è in parte ridotta e con una traduzione adatta a seguire l'andamento
dei disegni di Dino Battaglia.