:: Max Beckmann: La mia teoria. Cura Margherita Stein e Di Scalzo

 

La notte

 

 

 Max Beckmann

MEINE THEORIE DER MALEREI

(a cura Margherita Stein e Claudio Di Scalzo)
 

“La mia teoria sulla pittura”. Conferenza tenuta il 21 luglio 1938 alla New Burlington Gallery di Londra. Da: Benno Reifenberg e Wilhelm Hausenstein, Max Beckmann, Monaco, pag. 47. Traduzione di Margherita Stein.

Sono dispiaciuto di non potermi rivolgere a voi in inglese, ma conto un giorno di essere in grado di farlo. Prima di cominciare con una delucidazione o con una spiegazione, che poi è quasi impossibile, vorrei sottolineare il fatto che non ho mai svolto attività politica, in nessun modo. Ho solo cercato di rappresentare il più chiaramente possibile il mondo quale lo vedo. Dipingere è una cosa difficile, ed impegna l'uomo nella sua totalità, corpo e anima – perciò sono passato ad occhi chiusi ad alcune cose che appartengono alla vita reale e politica. Tuttavia ritengo che esistano due mondi: quello della vita spirituale e quello della realtà politica. Ambedue sono forme fenomeniche della vita, le quali forse a volte coincidono, mentre in fondo sono molto diverse. Lascio decidere a voi gentili signori quale delle due sia l'essenziale.

Ciò che voglio mostrare nel mio lavoro, è l’idea che si nasconde dietro la cosiddetta realtà. Cerco il ponte che unisce il visibile all’invisibile come il famoso cabalista che un giorno disse: “Se si vuole comprendere l’invisibile, si deve penetrare il più profondamente possibile nel visibile”.

Tendo sempre ad afferrare il fascino della cosiddetta realtà ed a tradurre questa realtà in pittura – a rendere visibile l’invisibile attraverso la realtà. Sembrerà forse paradossale, ma è veramente la realtà che forma il mistero della nostra esistenza.

Ciò che mi aiuta soprattutto in questo compito è la penetrazione dello spazio. Altezza, larghezza e profondità sono i tre fenomeni che io debbo ridurre su di un piano per formare la superficie astratta del quadro; in questo modo mi proteggo dall’infinità dello spazio. Le mie figure vanno e vengono, a seconda di ciò che fortuna o calamità comandano loro di fare, mentre io cerco di trattenerle, spogliate delle loro casuali qualità esteriori.

Uno dei miei problemi è quello di trovare l’io che ha una sola figura ed è immortale – di trovarlo negli animali e negli uomini, in cielo e nell’inferno, in tutto ciò che forma il mondo in cui viviamo.

Spazio ed ancora spazio è la divinità infinita che ci circonda e in cui noi stessi siamo contenuti.

Questo dunque cerco di esprimere con la mia pittura, una funzione diversa dalla poesia e dalla musica, ma per me necessità stabilita dal destino.

Quando avvenimenti spirituali, metafisici, essenziali ed accidentali entrano nella mia vita, posso trattenerli solo mediante la pittura. Non il tema è importante, ma la traduzione del tema: summa superficie astratta attraverso la pittura. Perciò uso raramente forme astratte, essendo ogni oggetto già abbastanza irreale, tanto che io non posso renderlo reale solo con la pittura.

Spesso, molto spesso sono solo. Il mio studio ad Amsterdam, un vecchio magazzino di tabacchi, si ripopola nella mia memoria di figure del tempo antico e moderno, sempre presenti nei miei pensieri.

Poi le forme prendono figura e diventano comprensibili nel grande vuoto e nell’incertezza dello spazio, che io chiamo Dio.

A volte mi aiuta il ritmo costruttivo della cabala, allorché i miei pensieri vagano da Oanes Dagon agli ultimi giorni dei continenti sommersi. Così accade delle strade con i loro uomini, donne e bambini, con le loro grandi dame e prostitute, le loro serve e duchesse. Figure che mi sembra di avere incontrate in sogni a doppio senso in Samotracia, Piccadilly e nella Wall Street. Sono Eros e la brama d’oblio.

Tutte queste cose mi appaiono in bianco e nero, come virtù e delitto. Sì, bianco e nero sono i miei due elementi. La mia fortuna, o disgrazia, è di non poter vedere tutto nero o tutto bianco. Un unico sistema di vedere sarebbe molto più semplice e chiaro, ma non esiste nella realtà. Molti sognano di poter vedere solo il bianco e veramente bello, oppure il nero, cattivo e demolitore. Ma io debbo accoglierli entrambi, perché soltanto in tutti e due, solo nel nero e bianco, posso riconoscere Dio, nella sua umanità, nel suo indefesso lavoro per il dramma eternamente variabile di ogni cosa terrena.

Così sono giunto involontariamente dal principio basilare alla forma, alle idee trascendenti. Campo questo che non è certo il mio, ma non me ne vergogno.

Secondo me tutte le cose essenziali nell’arte sono nate dalla più profonda sensibilità per il mistero della nostra esistenza. Tutti gli spiriti obiettivi mirano all’autorappresentazione. Io cerco quest’io nella mia vita e nella mia arte.

L’arte è creativa per amore di rappresentazione, non per divertimento – per amore di trasformazione, non per gioco. È la ricerca del nostro io che ci spinge sul cammino eterno, senza fine, che tutti noi dobbiamo percorrere. Il mio modo di esprimere il mio io è la pittura; naturalmente esistono altri mezzi per giungere a questa meta, come la letteratura, la filosofia, la musica, ma come pittore, benedetto o condannato a una terribile, acuta sensibilità, devo cercare la mia sapienza con gli occhi.

Ripeto, con gli occhi, poiché nulla sarebbe più ridicolo o privo di significato di una “concezione filosofica” dipinta con puro intellettualismo, senza il tremendo furore dei sensi, che cercano d’impadronirsi di ogni forma visibile di bellezza o di bruttezza. Se poi dalle figure che ho trovato entro i confini del visibile derivano temi letterari – come ritratti, paesaggi, o composizioni riconoscibili – tutti sono nati tuttavia dai sensi, in questo caso dagli occhi, e ogni tema mentale è stato nuovamente tradotto in forma, colore e dimensione.

Lo spirituale e il trascendente si uniscono nella pittura mediante l’interrotta attività degli occhi. Ogni tonalità di un fiore, di un viso, di un albero, di un frutto, di un lago, di un monte viene sollecitamente raccolta dalla potenza dei sensi a cui si unisce in modo a noi sconosciuto il lavoro dello spirito e, da ultimo, anche la forza e la debolezza dell’anima. È questo il centro vero e immutabile delle forze, che mette spirito e sensi in grado di esprimere ciò che è personale. È la forza dell’anima che costringe lo spirito a esercitarsi continuamente e a estendere il suo concetto di spazio.

Qualcosa di tutto ciò è forse contenuto nei miei quadri.

 

 

 

Max Beckmann. Nato a Lipsia il 12 febbraio 1884, morto a Brooklin, N.Y., il 27 dicembre 1950.

Rappresenta la versione più espressionistica della Neue Sachlichkeit, Nuova oggettività (gli altri esponenti sono Otto Dix e George Grosz). 1899-1903 studiò all'Accademia di Weimar sotto la guida di Frithjof Smith. 1906 premio Villa-Romana. Viaggi a Firenze e a Parigi. 1900-1914 a Berlino, menbro della Berliner Sezession, da cui uscì nel 1911. 1914-1915 soldato di sanità. 1915-1933 professore alla scuola artistica di Francoforte sul Meno fino alla rimozione da tale ufficio, dovuta ai nazisti, nel 1933. 1929-1932 soggiorni diversi a Parigi. 1933-1937 a Berlino. 1937 emigrazione a Parigi. 1938-1947 ad Amsterdam. 1947-1949 professore alla School of Fine Arts, Washington University, St. Louis, Missouri, USA. 1949 insegnante alla scuola artistica del Museo di Brooklyn.