:: Claudio Di Scalzo: Karoline con Kierkegaard a Bruxelles 4

 

 

KAROLINE CON KIERKEGAARD 4

Claudio Di Scalzo

LA MALATTIA MORTALE SUI CIOTTOLI DELLA GRAND PLACE

Karoline entra nella Grand Place di Bruxelles. Inimitabile esempio di architettura barocca fiamminga, le dice la “guida della stirpe inesauribile”. Se cannonate francesi distrussero tutti i palazzi salvo alcune facciate nel 1695, quanto venne ricostruito giustifica l’aggettivo “inimitabile”, pensa Karoline Knabberchen. E siccome la guida vale anche per Fabio Nardi, il pisano all’estero, non poteva che inventare una rima buffa per assommare La Maison de Roi e l’Hotel de la Ville e Le Pigeon residenza di Victor Hugo in esilio e La Maison des Ducs de Brabant e gli altri palazzi delle corporazioni con “dalle fondamenta al tetto si ricostruì in modo perfetto per dì e dì”. La fidanzata svizzera tace alla freddura per non incrementarne altre. Fotografa piuttosto l’ironia dei fiori esposti sull’acciottolato di stagione e di serra e non dimenticare quelli d’appartamento nel Palazzo le Cornet della corporazione dei barcaioli che ricordano gli annegati. Questa te la inventi! filosofa surrealista, dice beffardo Fabio Nardi. Terrò invece di conto dei fiori che Le Renard per dispetto mastica nel suo palazzo di merciai quando a fiore corrisponde un dolore che li fa marcire recisi nel vaso con acqua torbida. Sei crudele e scemo a darmi questa immagine, mi fai piangere. Mi fai tossire. Mi fai perdere l’equilibrio su questi ciottoli tondi che i petali fanno ammalare d’una malattia mortale. Karoline vacilla si appoggia alla spalla del fidanzato. Tossisce. Fabio si preoccupa. La sorregge. La sospinge verso una sedia e un tavolo de “Le Roi d’Espagne”, l’elegante caffè della piazza. “Sei regina della tosse in trono”, sussurra insistendo nella sua parte il Nardi. E tu un cinico da operetta di marionette, le risponde Karoline. Però repentinamente la giovane donna non è corrucciata e nemmeno sconvolta come appariva minuti prima, anzi accenna un irriverente sorriso che le solleva il mento verso la camicia del fidanzato rimasto in piedi e in attesa di un’altra staffilata verbale. Strofina le gote, le passa le mani arrossate sulle braccia: so che mi vuoi proteggere anche così. Ma ora lasciami scrivere che “le formiche sui polsi” son agitate. Regalami una cioccolata calda, regalati il dolce più ghiotto che il santo Aubert suggerisce agli eredi dei fornai in questo caffè. Nardi si china e bacia la fronte e le palpebre umide della fidanzata, e capisce che è dentro un amore invincibile. Mi lievita il core Santo mio, dice al busto dorato del santo entrando,  e voltandosi vede che la sua fidanzata inizia a scrivere sul taccuino. Me lo lievita e me lo mangia come pare a lei -  (variante) e me lo faccio mangiare come pare a lei.

 

                       I ciottoli gelidi della piazza e i fiori caldi nei loro colori di stagione e di serra.

                       I fiori d’appartamento nei palazzi custodenti l’armonia urbanistica.

                       Sgomento di linfe orgogliose supine alle parole

                       indurite foglie petali gambi recisi.

                       Tosse singolare e dinastie di fiori plurali.

                       Il singolo infiora la forma corale del dolore.

                       La malattia mortale solidifica la bellezza nelle corolle

                       nel tempo raffermo della fioritura. Meglio il lievito

                       sufficientemente irreale sotto ai denti

                       che il fiore sotto lo sguardo.

                       Fabio mi suggerisce la mia filosofia da fioraia

                       e acciottolaia. Il singulto nella grammatica interiore

                       che mi spossa nelle figurazioni in terra di Belgio:

                       aporie e recisioni e acque marcite nei vasi

                       nei pistilli morenti accolti nell’umore della stagnola.

 

                                     Amore nell’insorgenza mutila della possibilità

                                     ove Fabio non può attendermi – ma tornare lì sì – accadrà -

                                     Corpo diviso ancora io sono nel paradosso

                                     desiderante di non esser più me stessa.

                                     Dispero di sentirmi libera nella schiavitù del pensiero

                                     vasto come i fiori che muoiono sulla piazza risorgono in serra

                                     diversi e uguali – Dispero in questa libertà inscidibile nell’attimo

                                     della tosse del sorriso per voluttà d’assoluto.

                                     Sono alla mercé di quanto resta nel buio su questa Grand Place

                                     e desidero i baci dell’uomo, per aver requie, dalla scissione

                                     che di quanto possiedo fo dono a chi amo assieme a quanto non ho,

                                     e chi mi ama riunisce tutto per un giorno e una notte.

 

Dio saprà risolvere il paradosso della mia esistenza comune a quella di ogni altro essere. Come i ciottoli che si somigliano accosti nella piazza. Però ognuno sente in modo diverso il peso dei passi e la transitorietà del fiore che profuma e scintilla colore appetto al grigio.  Vivere la disperazione per se stessi per le possibilità di vita da scegliere. Ecco la malattia mortale. Possibilità che non poggia su alcuna garanzia di realizzazione. Meno del ciottolo che regge le ruote dei carretti infiorati d’un mattino. La libertà gravata dalla scissione conduce al desiderio, oh se lo provo stamani!, di non essere più me stessa. Ma ciò è impossibile accada mi dice Kierkegaard nella sua ultima opera, La Malattia Mortale, anche se mi suicidassi, il suicidio - atto mio - sarebbe e sarei me stessa. La disperazione tra i fiori. Da questa disperazione fuggirò scegliendo la fede in Dio ma accettando il paradosso dell’esistenza umana che Dio è la soluzione d’ogni mio dolore e smarrimento e tosse ma anche l’indimostrabile soluzione. E se insorge la logica… da Dio, paradossalmente ci si allontana, e il suicidio diventa accettabile, l’essere se stessi per avere requie dalla scissione. Dal paradosso. Dalla forbice che ti cerca per dirti che sei recisa prima ancora dell’ultima recisione. E se mi butto sulle lame quale colpa può essermi addebitata? Da Fabio da Dio stesso?

Ecco la cioccolata calda. Ecco la pausa che mi riconcilia con le labbra e i colori sulla Grand Place. Con gli occhi di chi mi guarda fiore senza stagione che non teme l’inferno delle sfioriture stagionali perché altre ne inventa da paradiso transitorio, e che sa, come nessun altro amare facendoti accettare che malore rima con cuore.

 

-Karoline… per te la cioccolata che renderà la mattinata cantata!, per la mia Ranocchietta bella.

-Ah, ottima rima dolce, però temevo mi dicessi che “Malore” rima con “cuore” e poi “Amore”.

-Te l’ho detto stanotte e forse non m’hai sentito per l’abbraccio troppo strinto.

-Oh,… l’avevo custodita la rima. Eccome. Te ne parlerò presto. L’ho anche scritta!

 

FINE

(del quartetto Karoline con Kierkegaard)

 

 

 

 NOTA FONDAMENTALE

 

"La malattia mortale sui ciottoli della Grand Place", scritta nella sera del 1 gennaio a Vecchiano conclude il quartetto "Karoline con Kierkegaard a Bruxelles" composto da “Karoline e la Dama col collier ai Musées Royaux des Beaux-Arts”; “KK all’Eglise St-Jacques-sur-Coudenberg”; “Colore e Tremore con Kierkegaard al Théâtre Marionettes de Toone di Bruxelles”. In questa ultima parte ambientata sulla Grand Place, tra i fiori, la riflessione su Fede e Scissione che scuote la protagonista. Con questo "quartetto", iniziato l'ultimo dell'anno come ricordato in altre note, ho vissuto un emblematico rapporto con il passato e il presente della mia vita d'autore, con il presente e il passato dei personaggi del "Canzoniere di Karoline Knabberchen".