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KAROLINE KNABBERCHEN

:: Karoline Knabberchen: Il Testimone. Giovanni Boine a Davos. Cura Claudio Di Scalzo
16 Maggio 2023


BOINE A DAVOS - Angosciato dalla padrona ISIT - cds 

 

 

Karoline Knabberchen

IL TESTIMONE

Giovanni Boine a Davos





Karoline Knabberchen (1959-1984)
a DAVOS



 

È un anno come un altro. A Davos i mesi trascorrono su rotaie dritte come fusi: il tempo non si piega alla storia, tanto meno a quella personale d'una manciata sparsa-spersa d'ammalati.

Eppure sembra si stia per scivolare dentro un'altra stagione: nel 1913, per l'appunto. E come già altri internati di lusso, scrittori poeti artisti la cui fama li raggiungerà ben oltre la tomba, Giovanni Boine diminuisce: oscurato nel corpo e nell'anima, da continui sobbalzi nella cassa toracica. Tisi, già lo sai, è patto col Demonio, una sorta di condanna a morte procrastinata fin tanto che Dio vuole (e sei a posto con cielo e inferno: li hai accontentati entrambi).

Allora sbecchetti quel che da dietro le sbarre altri uomini ti porgono, tanto per mantenerti vivo; il resto non l'accetti, non sei di quelli in cui la malattia fa nido per covarci prole-parole.

Non trovo alcuna comunione, pensa Boine davanti allo specchio, in bagno, nella piccola ma confortevole stanza della clinica a Davos. Nessuna comunione, neppure con la neve lì fuori; quand'ero ragazzo accadeva, d'improvviso, come un empito che colga impreparati, e appagante proprio per sua totale gratuità. Le lunghe passeggiate estive tra gli ulivi sono remote tanto quanto la neve che si raccoglie sul davanzale; l'accesso m'è precluso: distanza siderale. Potrei aprire, ora, la finestra; ficcare a forza testa e mani in questo candore, senza possederne una sola qualità. A volte vago intorno a quella chiave che, aprendo, mi faccia aderire al ricordo: un rumore, il paesaggio invernale immerso nel sonno e nella putrefazione; seguire il profilo del rosone nella chiesa, e immaginarselo dentro quella lontana-luce-vana imprecisa che forse non è mai esistita.

Da piccolo mi capitava di dormire a casa di alcuni zii: le stanze ampie, arredate semplicemente. Il lettone lo condividevo con i cugini: era sovrastato da una Madonna con Bambino e i muri, bianchi (per devozione a quella sacra immagine, pensavo) frugavano angoli con stucchi e ghirigori in forma di fiore. Quel fiore ancora oggi, se concentrandomi ne rievoco spirito e forma, provoca in me fremiti-guizzi, tentativi di risveglio da parte di qualche celata forza; l'ineffabilità, che in età adulta si concede alla dimensione transitoria della vita: succo eterno di cui giovinezza si nutre. Cosa dunque si dimentica? Qual è il criterio che nostro malgrado ci abbandona, e fa perdere senso alla vita, mano a mano che cresciamo?

Eccesso di tosse, poi sangue. L'infermiera gli parla determinata, ordinandogli in tedesco di chiudere la finestra. Boine non intende, non tutto, solo "finestra"; si scusa, accasciato sul letto, mentre lei gli fa cenno con la mano che sta a significare più o meno: "Non fa nulla". Lui vorrebbe raggiungere il tavolo, scrivere agli amici-indifferenti-nemici. Alcuni, come Papini e Soffici, si scorderanno di lui sepolto in Svizzera, come di suo fratello che quando è morto non s'è fatto vivo nessuno. Non che desiderasse sviolinate; però un virile abbraccio, un segno asciutto e nobile di partecipazione al dolore quello se l'aspettava sì: dinnanzi a ciò che non è solo il suo dolore, ma è quello (dovrebbe esserlo) di tutti dinnanzi alla Morte.

La scrittura è ormai perduta nel rigagnolo di sangue dentro il lavandino: scende, portata via dal getto d'acqua che l'infermiera spande rapida, sinestesia -anch'essa morente?- del suo destino in letteratura: spezzato dal freddo acquazzone del Futurismo, dai conformismi cattolici entro i quali la sua anima si dibatte fino allo stordimento. Lui, appeso con gancio alla storia, al suo divenire nell'uomo; con altro gancio all'eterno, alla partecipazione secolare alla tensione mistica. Ma certo d'esser uomo in ogni sua fibra; uomo volubile solamente se preso o tutto dentro la storia, o tutto dall'altra parte.

Quanto da vivere? Anni, poche settimane? Del miserere-esistere; pure la determinazione scende cuneo ficcato dentro questa  ferita. La lecco, come bestia che sente odore di morte, ma che ugualmente non vuol smettere, diventata pura sofferenza, d'essere in vita.

Si adagia, Boine, nel calco che cranio lascia sul cuscino. Perfetta deposizione, in notte del dicembre del 1912. Poi arriverà la guerra, che già tutti respiriamo, e che in Svizzera vento soffoca nei passi tra alte cime: ci rimane ancora un po' di tempo, e sarà altro annaspare tra la Finale del corpo e fanale dell'anima, palco coperte madide.

Non importa. Si guarda le mani: quasi 26 anni hanno lavorato in questo corpo sdrucito: loro, almeno, sane.

 

 


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