:: Claudio Di Scalzo: Se a Karel Plicka s’applica rifotografia in men che non si dica. Praga 1970


Gate of the Courtyard of honour - Karel Plicka











Claudio Di Scalzo
Se a Karel Plicka s’applica rifotografia in men che non si dica.
Praga 1970

Nel 1970 ero a Praga. Cecoslovacchia. Paese comunista preso due anni prima nel vorticoso ’68 a rovescio del “socialismo dal volto umano”. Il Patto di Varsavia-Urss aveva cancellato Dubcek. Lì il ’68 fu anche nodo di altri marxismi più libertari antistalinisti, sia detto. Sfere d’influenza. Esattamente come a Budapest nel 1956. Come nella repressa rivoluzione in Grecia post-bellica dagli americani. Lì i comunisti trucidati furono migliaia di migliaia. Ma ciò non viene ricordato. Stessa sorte sarebbe toccata ai comunisti italiani insorgendo dopo l’attentato a Togliatti. Che lì giustamente frenò, mentre mio zio Alvaro lo considerò un tradimento.

Ero a Praga grazie alle conoscenze devote all’URSS di mio zio Alvaro. Nel PCI ancora su posizioni alla Secchia. Gli antitogliattiani ancora piacevano nei vari pc dell’est. Con lo stesso viatico avrei visitato Berlino Est e l’Ungheria. Ero molto coinvolto dalla fotografia.

Se mettevo a fuoco quanto vedevo l’assenza del mondo pop europeo occidentale ed USA, da Paperino alla Coca-Cola ai collant al rock, proibitissimo, facevano temere prima o poi il crollo del socialismo reale. Il Comunismo reale non aveva un immaginario spendibile nell’Ovest. E lì cercavano quello nostro. Punto.

Il vantaggio era, per il fotografo, di scoprire la Praga senza insegne e neon esattamente come era ai tempi di Kafka. Oggi Praga è né più né meno simile ad ogni stravolta citta parco turistico esattamente come ogni capitale da Madrid a Stoccolma. Punto.

Fui tentato ri-fotografando Karel Plicka (Vienna 1894-Praga 1987), circolavano sue stampe e libri, di ottenere una sorta di progressione filmica sul tema di monumenti città persone. In abbigliamento che in Italia non esisteva più dopo il 1968. Persone in cammino, ad una finestra della Città Vecchia, sotto terrazzi governativi, sui marciapiedi. Pensai di evocare anche le solitudini viste da Kafka. Il senso del moto, dei dialoghi reinventati, dei silenzi me lo portava il restringimento sul particolare ripreso da Plicka. Persino la fronte aggrottata di San col drago. La mancanza di un ordine logico spingeva al puzzle da ricomporre come a cercare vestigia del passato praghese riversato nell’immbile presente.

Insomma concettualizzavo la fotografia. Se avessi avuto pazienza nel figurativo, e soprattutto nell’impiego di mesi a dipingere architetture praghesi, avrei persino potuto ricondurre le immagini in pose alla Magritte o a quelle di Hopper. Ma come dice Sara Cardellino che ha ritrovato queste stampe del 1970 la mia “oziosa vagabondaggine” camuffata da rifiuto del mestiere d’artista, m’impedì di realizzare qualcosa di unico con parola-ri-fotografia-pittura.

Restano questi ingrandimenti-frammenti. In alcuno casi incorniciati da parole.

Mi diverte pensare che oggi, i social Facebook e Instagram propongono Styorie-foto che si cancellano dopo un giorno dopo una manciata di ore. Il capitalismo realizza l’avanguardia? La filosofia dell’attimo che cattura l’essere?

 

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Giunge la madre il padre il bambino. Non sono turisti. Non c’erano turisti a Praga nel 1970. Rari. È una famiglia non di Praga ma dei altra città cecoslovacca in visita alla capitale. Nel socialismo reale i lavoratori avevano molti permessi per la cultura nazionale da utilizzare. Tutto gratuito compresi gli spostamenti.

La fotografia trova il suo divenire nascosto nella posa della guardia nascosta dalla colonna. Si sommano. Per la famiglia è una fortuna non raggiungere mai l’ingresso. Come se la fotografia sognasse per loro qualche catastrofe spirituale e li mettesse al sicuro grazie al fotografo Plicka. E al ri-fotografo Claudio Di Scalzo. Se stabilisco questa complicità, non richiesta, col maestro, probabile l’aura della fotografia che verrà consumata riprodotta imitata volgarizzata si salvi un poco. Pensai ventenne. Lo confermo oggi, giugno 2022 davanti agli esiti del tutti-fotografi con smartphone eiPhone e digitali reflex.

Sara Cardellino sgrano gli occhi scuri. Solleva le sopracciglia. Mi posa le mani sulla spalla mentre seduto sfoglio quanto ha ritrovato. A breve mi darà un bacio sulle tempie dove i capelli più non stanno. Così mi dirà che il fotografo vagabondo ha vinto la sua scommessa. Perché, è, veramente un artista. E nessuno lo sa. Ma lei sì.